Nota aggiornata su “Reddito di cittadinanza” e Quota 100
NOTA AGGIORNATA SU “REDDITO DI
CITTADINANZA” E QUOTA 100
(DECRETO LEGGE 28 GENNAIO 2019, N.4)
Il 28
gennaio è stato finalmente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto legge
che disciplina il cosiddetto “reddito di cittadinanza” e Quota 100. Il testo è dunque quello effettivamente
definitivo, diverso in alcune parti anche rispetto alla versione approvata dal
Consiglio dei Ministri (per come era stata pubblicata dalla stampa).
Ovviamente
come tutti i decreti ha effetti immediati, ma deve essere convertito in legge
entro 60 giorni, e nella conversione sono possibili modifiche da parte del Parlamento.
Prima di
entrare nelle considerazioni specifiche relative alle due misure, va premessa
una considerazione generale, dirimente per tutta la manovra di bilancio, e che
ha una particolare importanza per il “reddito” e “quota 100”, che della manovra
sono la parte quantitativamente più rilevante in termini di risorse.
Come abbiamo
sottolineato fin dall’inizio, la manovra finale fissa clausole di salvaguardia
pari a 23 miliardi per il 2020 e 29 miliardi per il 2021. La necessità di
reperire quelle risorse, ingentissime, per disinnescare gli aumenti dell’IVA
che altrimenti scatterebbero, fa sì che oltre a una serie di prevedibili (e
previsti) tagli futuri, ogni intervento, compresi quelli su pensioni e reddito,
sia sottoposto alla possibilità molto
concreta di essere rimaneggiato e rimesso in discussione, dopo le elezioni. La
manovra è una manovra elettorale.
Tanto più,
perché sul terreno fiscale, il governo in continuità con quelli precedenti,
persegue con la pratica di condoni e sconti alle imprese, e fa la Flat-Tax per
il lavoro autonomo. L’opposto di quanto sarebbe possibile e necessario mettere
in campo, contrastando la grande evasione, ripristinando una reale
progressività delle imposte, istituendo una patrimoniale sulle grandi
ricchezze.
IL “REDDITO DI CITTADINANZA” O LA SOCIETA’ DELLA COAZIONE
LA POVERTA’ IN ITALIA E Il VINCOLO
DELLE RISORSE
Secondo
l’Istat nel 2017 in Italia c’erano 1 milione e 778mila famiglie residenti in
condizioni di povertà assoluta, corrispondenti a 5 milioni e 58mila persone. Le
famiglie in condizione di povertà relativa erano invece 3 milioni 171mila pari
a 9 milioni 368mila persone.
Per quanto
il Ministro Di Maio affermi che il reddito si rivolge a 5 milioni di persone,
le stime dell’Istat indicano una platea assai più limitata, 1 milione 308 mila
famiglie, per 2 milioni e 706 mila persone. La misura quindi non solo non
coprirebbe tutta l’area della povertà, assoluta e relativa, ma risponderebbe a
poco più della metà della stessa condizione di povertà assoluta.
Per quanto
le risorse stanziate siano significativamente superiori a quelle del REI, va
sottolineato come il “reddito di cittadinanza” venga erogato non in relazione
al numero di coloro che rientrano nei requisiti di reddito e patrimonio e che
abbiano ovviamente fatto domanda, ma fino al tetto delle risorse stanziate. Se
le domande superano le risorse, il sussidio viene rimodulato e ridotto.
10 ANNI DI RESIDENZA
Per
garantire il più possibile che il provvedimento venga riservato agli
“italiani”, per cui come ha detto Di Maio “è stato concepito”, l’RdC sarà
fruibile solo da chi sia residente nel paese da almeno 10 anni, di cui gli
ultimi due in modo continuativo.
Si
raddoppiano in questo modo i 5 anni
previsti per l’ottenimento del permesso
di soggiorno UE di lungo periodo. Una previsione discriminatoria e
soggetta ad essere impugnata davanti alla Corte Costituzionale – che con una
recente sentenza ha stabilito l’irrazionalità di norme che mettano in
correlazione il soddisfacimento di bisogni primari con la lunga permanenza su
un territorio - ma intanto utile alla
propaganda razzista e sempre meno distinguibile di Lega e 5Stelle.
IL REDDITO E LA FAMIGLIA
L’RdC non
sarà una misura individuale – come dovrebbe essere - ma familiare. Non solo nel senso che il
reddito viene erogato ai nuclei familiari, ma nel senso che le varie
condizionalità impegnano ogni membro della famiglia e nel caso in cui un
singolo membro non le rispetti, la ritorsione (la decadenza) colpisce
tutti. Anche in questo caso è tutta da
verificare la costituzionalità della norma. Di certo per gli estensori, il
principio di responsabilità individuale va a farsi benedire, in un disegno in
cui il disciplinamento esterno del mercato del lavoro e delle leggi che lo
regolano, si intreccia con quello interno della famiglia, sempre più concepita
come unità coattiva: dal reddito al ddl Pillon.
I REQUISITI DI REDDITO E PATRIMONIO
Potranno
accedere all’RdC, i nuclei familiari che rispettino congiuntamente i requisiti
di un valore ISEE inferiore a 9.360 euro;
un patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non
superiore ai 30mila euro; un patrimonio
mobiliare non superiore ai 6mila euro (accresciuto di 2mila euro per ogni
componente della famiglia fino ad un massimo di 10mila e di ulteriori mille
euro per ogni figlio successivo al secondo); un valore del reddito familiare di
6mila euro per i singoli, moltiplicato per la scala di equivalenza secondo il
numero dei componenti (+0,4 dal secondo membro maggiorenne in poi, + 0,2 per i
minori).
La scala di
equivalenza è ridotta rispetto a quella dell’Isee, il che determina una
penalizzazione per le famiglie numerose, in particolare se con minori.
Per
l’accesso alla pensioni di cittadinanza il valore del reddito soglia è
incrementato a 7.560 euro.
Nessun
componente della famiglia dovrà possedere auto nuove acquistate 6 mesi prima, o
con cilindrata superiore a 1600 cc, o moto superiori a 250 cc immatricolati due
anni prima.
Nessun
componente della famiglia dovrà aver dato dimissioni volontarie nell’anno
precedente, senza nessuna analisi delle motivazioni specifiche nei diversi
casi.
Il sussidio
sarà corrispondente alla differenza tra il reddito percepito e la soglia di 780
euro mensili. Non potrà in ogni caso superare i 6mila euro annui per un singolo
che non abbia alcun reddito (moltiplicato per la scala di equivalenza per più
componenti) e di una ulteriore quota fino ad un massimo di 3360 euro per chi
vive in affitto.
Sarà
corrisposto per 18 mesi, e potrà essere rinnovato dopo la sospensione di un
mese.
IN CASO DI
FALSE DICHIARAZIONI sono previste pene da 2 a 6 anni con la restituzione di
quanto ricevuto (aumenta di un anno rispetto alla prima versione la durata
minima della detenzione).
IL PATTO PER IL LAVORO E IL PATTO PER
L’INCLUSIONE SOCIALE
Tutti i
maggiorenni dovranno dichiarare l’immediata disponibilità al lavoro, al
percorso di formazione o riqualificazione, e alle attività al servizio della
comunità ( 8 ore settimanali gratuite nei progetti dei comuni). Dovranno
svolgere attività di ricerca di lavoro definite e documentate settimanalmente,
fare colloqui psico-attitudinali, accettare una delle tre offerte di lavoro
congrue nei primi dodici mesi. Dopo il primo anno o in caso di rinnovo,
dovranno accettare la prima offerta utile. Come già detto, nel caso in cui uno
dei componenti non sottoscriva entrambe i Patti, l’RdC decade per tutto il
nucleo familiare. Nel caso di assenze ingiustificate alle convocazioni dei
Centro per l’Impiego anche di un solo membro invece, scattano le decurtazioni (un mese per un’assenza, due
mesi per due, la decadenza per tre assenze).
LA CONGRUITÀ DELL’OFFERTA DI LAVORO
Nei primi 12
mesi è definita congrua un’offerta di lavoro entro 100 chilometri dalla
residenza se si tratta della prima offerta, 250 chilometri se è la seconda
offerta, ovunque nel territorio nazionale se è la terza offerta. Oltre il dodicesimo mese è congrua un’offerta
entro i 250 chilometri se è la prima o la seconda offerta, ovunque se è la
terza. In caso di rinnovo, vale
un’offerta ovunque nel territorio nazionale. Solo nel caso in cui nel nucleo
familiare vi siano persone con disabilità, la distanza massima resta a 250
chilometri. Viene richiamata la definizione di congruità di uno decreti
attuativi del Jobs Act, ma non il successivo decreto Poletti dell’aprile 2018.
Va ricordato che secondo questo decreto (che il testo del RdC peggiora
nettamente rispetto alla distanza dal luogo di residenza), viene definita
congrua un’offerta anche a tempo determinato, purché non inferiore ai 3 mesi di
durata. In sostanza ci si dovrebbe
spostare ovunque nel territorio nazionale per non perdere un lavoro che dura un
trimestre.
Al datore di
lavoro che assuma a tempo pieno e indeterminato il beneficiario dell’RdC, e
realizzi in questo modo un incremento del numero di occupati, è riconosciuto uno sgravio contributivo pari
alla differenza tra 18 mensilità e il reddito già goduto. Lo sgravio non sarà
comunque inferiore a 5 mensilità. La versione finale elimina il mese aggiuntivo
(6 mesi di sgravio fisso) previsto inizialmente per le donne ed i soggetti
svantaggiati.
Nel testo
definitivo viene eliminata la concessione dell’incentivo anche se non c’è
incremento occupazionale e semplicemente si sostituiscono i lavoratori andati
in pensione. Devono essersi accorti, come avevamo segnalato commentando la
versione precedente, che dare contributi anche per la semplice sostituzione di
chi va in pensione con lavoratori che già costano meno, in quanto neo assunti,
e già hanno meno diritti, dopo il Jobs Act, era davvero eccessivo!
Resta il
fatto che, poiché con il Jobs Act si può licenziare praticamente sempre, senza
l’obbligo della reintegra, il “reddito di cittadinanza” funzionerà esattamente
come ha funzionato la decontribuzione associata al contratto a tutele crescenti
del Jobs Act: una volta esauriti gli sgravi, via libera ai licenziamenti! Con
buona pace del tempo indeterminato.
Non si sono
eliminate le norme vessatorie sui licenziamenti previste dal Jobs Act,
reintroducendo l’articolo 18, come prometteva il M5S in campagna elettorale, si
è invece trasformato il “reddito di cittadinanza” in un ulteriore incentivo
alle imprese, che produrrà altra occupazione precaria.
IN CONCLUSIONE
Oltre ai
limiti molto pesanti di copertura della platea prima indicati, il “reddito di
cittadinanza” non è un reddito di cittadinanza: il governo sovrappone
totalmente il contrasto alla povertà con le politiche per il lavoro, e vara un
provvedimento di workfare con condizionalità pesantissime e punitive.
Nel
frattempo non fa politiche per creare lavoro, per cui, con una contraddizione
macroscopica, non si riesce a comprendere da dove dovrebbero venir fuori i
milioni di posti di lavoro alla cui accettazione è vincolata la concessione del
reddito.
Il “reddito
di cittadinanza” è un provvedimento discriminatorio per le famiglie
extra-comunitarie povere. Disegna una società il cui obiettivo è quello di un
disciplinamento distruttivo dell’autonomia delle persone, sottoposte nello
spazio domestico ad un’idea di famiglia che è sempre più comunità coattiva,
mentre fuori dallo spazio domestico, opera la “disciplina del mercato”.
Si lavora
gratuitamente per il comune, mentre si bloccano le assunzioni in una pubblica
amministrazione che è sempre più ridotta ai minimi termini. Ci si deve spostare
fino all’intero territorio nazionale per un lavoro la cui durata può anche
essere di tre mesi.
E il
“reddito” alla fine non è che un’altra forma per trasferire risorse alle
imprese, esattamente come ha fatto la decontribuzione prevista da Renzi per il
cosiddetto “contratto a tutele crescenti” del Jobs Act.
QUOTA 100 NON E’ L’ABROGAZIONE DELLA
LEGGE FORNERO
E NON RISOLVE NULLA PER LE DONNE E I
LAVORATORI PRECARI
ASSENTE LA NONA SALVAGUARDIA PER GLI
ESODATI
Non è
prevista neppure nella versione definitiva del Decreto, la nona salvaguardia
per gli esodati che avrebbe dovuto sanare la situazione di circa 6mila persone,
non coperte dalle salvaguardie precedenti e rispetto alla quale erano state
reiterate molte promesse da parte della maggioranza. E’ un punto grave, per cui
si deve continuare a pretendere una soluzione.
UNA MISURA UNA TANTUM?
Si fissa poi
il carattere “sperimentale” e non strutturale di Quota 100, la cui valenza è
delimitata al triennio 2019- 2021. In realtà, come già detto, il meccanismo
delle clausole di salvaguardia, sottopone l’intervento sulle pensioni come
quello sul reddito al rischio che si
tratti di misure spot, determinate dalla propaganda in vista delle elezioni
europee, persino maggiore della sperimentalità triennale.
QUOTA 100 NON E’ QUOTA 100
Si fissano
poi i due requisiti: almeno 62 anni di
età e almeno 38 di contributi, che devono essere rispettati entrambi. Quota 100
non è dunque Quota 100: non si può accedere alla pensione ad esempio con 37 di
contributi e 63 di età, per il doppio paletto.
L’ASPETTATIVA DI VITA
L’adeguamento
all’aspettativa di vita resta come meccanismo generale per il requisito
anagrafico della pensione di vecchiaia: a gennaio 2019 si passa quindi da 66
anni e 7 mesi a 67 anni, e resta la previsione di ulteriori futuri aumenti.
L’adeguamento
viene cancellato invece per il requisito contributivo relativo al cosiddetto
accesso al pensionamento anticipato indipendente dall’età. In sostanza si
blocca ai requisiti esistenti nel 2018 ( 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni
e 10 mesi per le donne ) l’anzianità contributiva necessaria per la pensione
anticipata. Vengono inoltre esclusi dagli incrementi i lavoratori precoci
(coloro i quali hanno svolto almeno un anno di lavoro prima dei 19 anni)
equiparati in questo modo alle 15 categorie di lavori usuranti e gravosi,
definite dalla legge 205/2017 (che
usufruiscono delle agevolazioni se hanno almeno 30 anni di contributi ed hanno
svolto quell’attività per almeno 7 anni negli ultimi 10).
LE FINESTRE. PUBBLICI E PRIVATI
Vengono
reintrodotte le finestre, cioè il periodo che intercorre tra la maturazione dei
requisiti e il diritto alla decorrenza della pensione. La loro reintroduzione
depotenzia l’eliminazione dell’aumento legato all’aspettativa di vita per le
pensioni anticipate, portando lo “sconto” rispetto alla situazione preesistente
a 2 mesi.
Le finestre
sono trimestrali per i lavoratori dipendenti del settore privato e semestrali
per quelli del settore pubblico.
La
motivazione addotta per la differenziazione tra pubblici e privati, riguarda la
necessità di garantire i servizi essenziali: in palese contrasto con il nuovo
blocco delle assunzioni nel pubblico fino a novembre 2019 stabilito dalla
manovra.
I dipendenti
pubblici sono penalizzati anche dal rinvio del pagamento del TFS che viene
posticipato alla data in cui la lavoratrice o il lavoratore sarebbe andato in
pensione senza quota 100, anche di 6 anni. Il testo finale fa riferimento a
convenzioni con le banche per l’erogazione anticipata del TFS, con gli interessi
pagati dall’Inps e trattenuti dall’importo dell’indennità di fine servizio,
quindi a carico del lavoratore.
PROROGA DI APE SOCIALE
Viene
prorogata di un anno l’Ape Social ricalcando i termini con i quali è stata
istituita. Come è noto l’AS ha previsto la possibilità per le persone che
abbiano compiuto 63 anni di andare in pensione se in una delle seguenti
condizioni: disoccupati che abbiano concluso l’indennità di disoccupazione da
tre mesi, con almeno 30 anni di contributi; lavoratori che assistano familiari
conviventi di 1°grado con disabilità grave da almeno 6 mesi e con almeno 30
anni di contributi; lavoratori con invalidità uguale o superiore al 74% con
almeno 30 anni di contributi; lavoratori che svolgano un lavoro particolarmente
gravoso o l’abbiano svolto per 6 anni negli ultimi 7 con 36 anni di contributi.
Sono requisiti strettissimi e interpretati restrittivamente, in particolare per
quel che riguarda le lavoratrici e i lavoratori disoccupati. Il che ha
comportato – secondo i dati Inps del novembre 2018 – l’accoglimento di poco più
di 33mila domane su un totale di oltre 87mila (il 38%), tra novembre 2017 e
luglio 2018.
PROROGA DI OPZIONE DONNA
Nella
decreto è prevista anche la proroga di Opzione donna, con la possibilità di
accedere alla pensione per le lavoratrici dipendenti che entro il 31 dicembre
2018 abbiano maturato almeno 35 anni di contributi ed abbiano almeno 58 anni di
età se lavoratrici dipendenti e almeno 59 se autonome. Opzione donna comporta
come è noto il ricalcolo complessivo della pensione con il sistema
contributivo, con una decurtazione media del 30%. Le finestre inoltre in questo
caso continuano ad essere di 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e 18 mesi
per le lavoratrici autonome.
IN SINTESI
Quota 100,
come il “reddito di cittadinanza” sono sottoposte al rischio molto concreto di
interventi peggiorativi, passate le elezioni europee, per la pesantezza delle
clausole di salvaguardia che condizionano tutta la manovra del governo.
Nel merito,
è migliorativa rispetto alla disastrosa situazione esistente, conseguente alla
Legge Fornero – per la cui abrogazione,
lo ricordiamo, Rifondazione Comunista
promosse un referendum nel 2012 purtroppo vanificato dallo scioglimento
anticipato delle camere – ma ha carattere triennale e non rappresenta in nessun
modo né la cancellazione promessa in campagna elettorale della Fornero, né una
riforma organica, come testimonia il permanere di diverse misure, tutte in
regime sperimentale (Quota 100, Ape Sociale, Opzione Donna…).
Vi
accederanno un numero di lavoratori significativamente inferiore alla platea
potenziale, anche per la riduzione della pensione conseguente ai minori anni di
contribuzione.
L’adeguamento
all’aspettativa di vita resta per la pensione di vecchiaia, e non è parametrato
alle diverse condizioni di lavoro e di stress da lavoro, non risolte dalle
limitate eccezioni previste.
Non è in
nessun modo risolutiva in particolare per le donne, le più colpite dalla
controriforma del 2011, che continuano ad essere gravemente penalizzate, e che
anticipano le future (e più gravi) penalizzazioni dei giovani lavoratori e
delle giovani lavoratrici precarie.
Il
perdurante sessismo di una società che scarica sulle donne il lavoro domestico
e di cura (5 ore e 13 minuti in media al giorno contro 1 ora e 50 degli uomini:
3 volte tanto1), e insieme le discrimina
nei riconoscimenti sociali, fa sì che le donne abbiamo carriere lavorative
discontinue, subiscano il part-time imposto assai più degli uomini (1milione e
851mila donne contro 851mila uomini2), subiscano perduranti penalizzazioni
salariali.
Nel 2011,
prima dell’approvazione della Legge Fornero, le donne con 35 anni di contributi
erano solo il 20,6% sul totale femminile, contro il 70,6% degli uomini sul
totale maschile3. Figuriamoci 38! Ma allora era possibile utilizzare il canale
della pensione di vecchiaia che prevedeva 5 anni di differenza per le
lavoratrici private (mentre per le pubbliche la modalità truffaldina di
relazione con la UE da parte di tutti i governi, di centrosinistra come di
centrodestra, aveva già portato all’innalzamento dell’età pensionabile).
I dati
recenti forniti dai sindacati parlano per le lavoratrici del settore privato di
una media di 25,5 anni di contributi contro i 38,8 degli uomini.
In sostanza
le donne che potranno accedere a Quota 100 saranno un’assoluta minoranza,
mentre Opzione Donna comporta penalizzazioni delle pensioni fortissime, che
intervengono su retribuzioni già nettamente più basse di quelle degli uomini.
I giovani
La
situazione attuale delle donne non fa che anticipare la situazione futura di
chi lavora oggi.
I 38 anni di
contributi sono una chimera per la condizione precaria sempre più generalizzata
delle lavoratrici e dei lavoratori attuali, che vede accanto alla discontinuità
lavorativa condizioni salariali nettamente peggiori (il 30% in meno rispetto al
tempo indeterminato).
Per questo è
per noi imprescindibile una mobilitazione che si ponga l’obiettivo di una
riforma organica della previdenza, e che rivendichi da subito il ripristino di
una riduzione significativa dell’età pensionabile per le donne – almeno fin
quando non sarà conquistata una effettiva uguaglianza nel lavoro produttivo e
riproduttivo – e una pensione di garanzia per i giovani, iniziando a rimettere
in discussione i meccanismi del contributivo.
Come
continuiamo a evidenziare, non c’è nessun problema di sostenibilità intrinseca
del sistema pensionistico. La controriforma Fornero fu imposta dentro le
logiche delle politiche di austerità. Ma il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni
previdenziali, al netto dell’assistenza e delle tasse, è sempre stato in attivo a partire dal 1996: un
attivo che nel 2016 è stato di circa 39 miliardi4.
Il limite di
“Quota 100” è quello di tutta la manovra, di cui pure rappresenta probabilmente
il provvedimento migliore: i vincoli dell’austerità UE rispetto ai quali il governo
ha portato avanti un’iniziativa tanto teatrale quanto inefficace, ed insieme le
politiche fiscali inique fatte di condoni e Flat Tax, piuttosto che di
contrasto all’evasione, maggiore progressività, patrimoniale sulle grandi
ricchezze.
1 Censis, 2016
2 Istat,
terzo trimestre 2018
3 X
Congresso Attuari INPS
4 F. R.
Pizzuti “Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere”, Gennaio 2018
A cura di
Roberta Fantozzi - Dip. politiche economiche e del
lavoro
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