lunedì 25 novembre 2019

IL CONGRESSO DEL PARTITO DELLA SINISTRA EUROPEA DAL 13 AL 15 DICEMBRE 2019.



Il Congresso del Partito della Sinistra Europea.
Paolo Ferrero*
Dal 13 al 15 dicembre si terrà a Malaga il Congresso del Partito della Sinistra Europea.
Oggi il PGE è una realtà consistente, presente in tutti i paesi che fanno parte dell’Unione Europea. Il Congresso serve per fare un salto di qualità in più direzioni.
In primo luogo è necessario che il congresso confermi la sintesi unitaria, tra le diverse forze politiche, che sviluppi il terreno unitario fornito nel documento congressuale. Non è cosa semplice coordinare decine di partiti diversi per cultura politica e realtà nazionale, ma questa è la prima sfida del congresso, ben impostata grazie ad un documento preparatorio unitario.
In secondo luogo è necessario riuscire a costruire attorno a questa unità un maggior lavoro politico comune. E’ del tutto evidente che ad oggi il PGE è in primo luogo un coordinamento di realtà nazionali ma non agisce come vero e proprio partito nello spazio europeo. Credo che questo sia possibile farlo innanzitutto individuando campagne comuni che vengano fatte unitariamente sul livello europeo. Pensiamo alla questione del salario, del welfare, della tassazione, delle politiche ambientali e monetarie. Vi sono molti terreni che si prestano ad una azione chiara e riconoscibile del partito europeo, al di là delle azioni dei singoli partiti nazionali. Pensiamo solo alla vicenda del governo di Syriza in Grecia. Al di là delle diverse valutazioni che possiamo dare dell’azione di Syriza, è del tutto evidente che è mancata una azione coordinata di sostegno nei diversi paesi europei e che il popolo greco è  stato nei fatti lasciato solo. Occorre su questo fare un salto di qualità.
In terzo luogo occorre operare per l’unità di tutte le forze della sinistra di alternativa. In questi anni sono maturate al di fuori del Partito della Sinistra Europea varie esperienze politiche significative: da Podemos a France Insumise al movimento di Varoufakis. Non è semplice riportare all’interno di una sola organizzazione tutte queste esperienze. E’ però possibile e necessario costruire una rete di relazioni stabili tra queste diverse esperienze in modo da riuscire a costruire una sinergia tra queste diverse forze. E’ necessario dotare la sinistra di alternativa di una massa critica sufficiente ad incarnare una credibile proposta di alternativa. Come esiste la famiglia popolare, quella socialista, quella liberale o quella fascistoide, è necessario dar vita ad una famiglia della sinistra antiliberista.
Questa azione unitaria verso tutta la sinistra di alternativa si intreccia con il quarto compito del partito della sinistra europea: la ricostruzione di una credibile proposta di alternativa. E’ del tutto evidente che mentre nel primo quinquennio della crisi nata nel 2007/8 sono state le forze della sinistra a rappresentare la possibilità di una alternativa, negli ultimi anni sono state le forze razziste e fascistoidi a farla da padrona. Non siamo stati capaci di dar vita ad una duratura e credibile ipotesi di alternativa su scala europea e la gestione complessiva della vicenda greca non ci ha certo rafforzati. La costruzione di questa non è quindi solo un fatto organizzativo – di unità all’interno della sinistra europea e verso le altre forze di sinistra presenti all’esterno – ma è un compito politico di prima grandezza. I movimenti delle donne e sul cambio climatico forniscono un terreno su cui è possibile riqualificare fino in fondo la nostra proposta in modo che sia chiaro che l’alternativa in Europa come nel mondo non è tra socialiberisti e fascioliberisti.
La costruzione dell’alternativa richiede l’avvio di un dibattito culturale e politico a livello europeo, cosa che oggi non accade se non in minima parte. Transform si muove positivamente in questa direzione ed è necessario che direttamente il partito della sinistra europea si ponga il problema di diventare punto di riferimento del tessuto intellettuale di sinistra nel continente e apra contemporaneamente uno spazio di dibattito politico culturale. L’organizzazione di un tessuto culturale della sinistra di alternativa è quindi un punto fondamentale su cui operare.
Da ultimo, la costruzione di una prospettiva dell’alternativa chiede di unire le forze sociali che in Europa si muovano su questo terreno. A tal fine il Forum Europeo deve coinvolgere maggiormente il complesso delle forze sociali, in modo da dar vita ad una sorta di Forum sociale europeo che diventi un appuntamento periodico e significativo dei movimenti.
Da ultimo occorre favorire anche forme di partecipazione e iscrizione diretta al partito della sinistra europea al di là dei partiti che lo compongono. Le adesioni individuali sono una strada che in Italia stimo praticando più che in altri paesi: occorre proseguire e occorre trovare le forme attraverso cui valorizzare questa adesione diretta al partito europeo, aumentandone dimensione ed articolazione partecipativa.
Senza farla più lunga, quelli sopra elencati mi paiono i punti fondamentali dell’agenda del partito della sinistra europea al fine di essere in grado di porsi come alternativa alle destre fascistoidi come al centrismo diversamente liberista di chi oggi governa l’Unione Europea.
*Vicepresidente Partito della Sinistra Europea


mercoledì 20 novembre 2019

ANCHE SU F35 NESSUNA SVOLTA: MAGGIORANZA M5S-PD-LEU CONFERMA PROGRAMMA

Anche su F35 nessuna svolta: maggioranza M5S-PD-LeU conferma programma
Pubblicato il 19 nov 2019
Spese militari. F35, passa la mozione della maggioranza che approva il programma
 di Luca Liverani da Avvenire
Voltafaccia del M5s, da sempre contrario: «Le condizioni rispetto a 6 anni fa sono cambiate». Anche il Pd rinuncia al dimezzamento della spesa chiesto nel 2014. «Grande delusione» della campagna NOF35
Virata a 180° del Movimento 5 stelle sugli F35. La mozione della maggioranza approvata ieri sera alla Camera registra un cambiamento radicale della storica posizione dei grillini, ostinatamente contrari al costoso programma di acquisto di 90 cacciabombardieri Lockheed Martin. In retromarcia anche il Pd, che nel 2014 aveva sostenuto la mozione Scanu che chiedeva al governo di dimezzare l’investimento per il costoso programma di velivoli. Peraltro mai attuata dai governi dem. Duro il commento della Campagna “Taglia le ali alle armi”, che esprime «grande delusione: la mozione della maggioranza non chiede il taglio o la sospensione del programma, ma solo di “valutare le future fasi del programma tenendo conto dei mutamenti del contesto geopolitico, delle nuove tecnologie, dei costi che si profilano, degli impegni internazionali assunti dall’Italia, delle esigenze di contenimento della spesa pubblica, della tutela e delle opportunità dell’industria italiana del comparto difesa e dell’occupazione”».
La mozione giallo-rossa era arrivata in risposta a quella presentata da parlamentari della Lega e sottoscritta anche da forzisti che chiedeva «una conferma ed addirittura una accelerazione degli acquisti dei caccia con capacità nucleare». Ma per la Campagna (promossa da Sbilanciamoci, Rete della Pace e Rete Italiana per il Disarmo) il testo della maggioranza è da bocciare perché «generico e senza coraggio».
«Non prende alcuna posizione su una questione così importante e dall’impatto rilevante sui fondi pubblici e sulla spesa militare – affermano le organizzazioni – ma in questo modo nella pratica avvalora la continuazione del Programma secondo i piani già stabiliti». Molto severa la critica contro i grillini: «Siamo delusi in particolare dal Movimento 5 Stelle, che nella scorsa Legislatura aveva chiesto con forza lo stop complessivo del programma JSF». Critiche anche al Partito Democratico che aveva «chiesto il dimezzamento della spesa» con la mozione approvata nel 2014. La Campagna “Taglia le ali alle armi” invece «chiede la cancellazione definitiva della partecipazione italiana al programma F35, un inutile spreco di risorse».
Le organizzazioni pacifiste ricordano come l’Italia abbia già «sottoscritto contratti per almeno 28 velivoli spendendo fino ad ora una cifra di almeno 5 miliardi di euro (comprese le fasi iniziali di sviluppo). Se il profilo di acquisizione dovesse essere confermato saranno ancora almeno 9 i miliardi di euro da spendere, che diventeranno almeno 50 complessivamente lungo tutto il ciclo di vita del programma. Nonostante i recenti annunci soddisfatti di Lockheed Martin (la capo-commessa del progetto) in direzione opposta, i costi per singolo velivolo (in leggera discesa perché il Pentagono sta volontariamente comprando più aerei) continuano a rimanere molto alti se si considerano anche retrofit e completamento di tutte le parti. E lo stesso Pentagono ha dovuto confermare in questi giorni i numerosi problemi tecnici che mantengono bassissima l’affidabilità della flotta. Tanto è vero che è stata posticipata di un anno (ulteriore ritardo rispetto a tutti i programmi iniziali) la firma dei contratti di produzione definitiva».

Il Movimento 5 stelle giustifica così la sua piroetta: «Le condizioni rispetto a 6 anni fa sono cambiate. Ci troviamo in uno stato avanzato del programma, ma è necessario avviare un dibattito franco sul tema, per evitare scelte sbagliate e affrettate, lasciando sempre da parte gli approcci ideologici», sostiene ora il pentastellato Luca Frusone, componente della commissione Difesa. «Temi come quello degli F35 sono complicati. Noi abbiamo criticato il programma – ammette Frusone – e di certo non rimpiangiamo quella scelta. Quello che oggi vogliamo chiedere al governo – ha aggiunto – è di valutare seriamente, e con coscienza, il prosieguo del programma, considerando tutte le possibilità. Come un buon padre di famiglia – dice il deputato grillino – tenendo a mente l’interesse dell’Italia». «Una revisione del programma F35 è doverosa anche da parte dell’Italia – afferma il senatore 5s Gianluca Ferrara - come ha ribadito più volte Luigi Di Maio e confermato lo stesso Conte. Il M5s 5 Stelle ha sempre criticato questo programma militare quando era all’opposizione, e continua a farlo oggi che sta al governo». Si dice soddisfatto anche Erasmo Palazzotto di Leu: «È necessaria una riflessione seria sul ruolo che l’Italia deve avere nello scacchiere internazionale in questa fase storica, il nostro Paese si dovrebbe fare promotore di una politica di riduzione degli armamenti. Con questo voto – sostiene il deputato – il Governo ha tutti gli strumenti per riaprire il negoziato e tornare all’obiettivo del dimezzamento del budget già approvato dal Parlamento italiano nel 2014. Adesso è arrivato il momento di farlo».
«Gli F35 non servono a difendere il Paese o per le cosiddette missioni di pace, ma solo ad aumentare gli affari dell’industria militare e, in caso, ad essere usati per azioni d’attacco e di guerra», commenta Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci! «Soldi buttati – dice – che potrebbero essere usati contro il dissesto idrogeologico o mettere in sicurezza le scuole». «Il Parlamento dia al Paese un segnale di responsabilità, aprendo gli occhi sulle emergenze e sulle priorità che sono la difesa del territorio, gli investimenti per lo sviluppo sostenibile, la ricerca, la produzione e l’occupazione, pulita», sottolinea Sergio Bassoli della Segreteria di Rete della Pace. «Alcuni F35 destinati all’Italia sono previsti con capacità nucleare – ricorda Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo - per poter trasportare e sganciare le testate presenti a Ghedi (le B61 in rinnovamento) nell’ambito dei programmi di nuclear sharing. Davvero l’Italia vuole basare la propria sicurezza sulla minaccia d’uso di ordigni genocidi ed inumani?».
Contro la produzione e l’acquisto degli F35 si pronuncia anche Pax Christi. Il coordinatore nazionale, don Renato Sacco, in una lettera aperta al quotidiano La Stampa, contesta l’editoriale del 10 novembre «Da Cameri a Candiolo. Sulle strade dell’Italia che innova». «A Candiolo la ricerca oncologica è al servizio della vita – dice Pax Christi – a Cameri la tecnologia degli F35 è a servizio della morte. A Cameri si producono aerei per fare la guerra, caccia di attacco e non di difesa, che possono trasportare anche bombe atomiche. Sul territorio italiano di bombe atomiche statunitensi che ne sono già, e il prossimo anno arriveranno anche le micidiali B61-12».
dal sito di Avvenire, martedì 19 novembre 2019

lunedì 18 novembre 2019

DAL CANADA A TARANTO: TUTTI I CRIMINI AMBIENTALI DELLA MULTINAZIONALE CHE SCAPPA DALL’ILVA


Dal Canada a Taranto: tutti i crimini ambientali della multinazionale che scappa dall’ILVA
di Elena Mazzoni* (responsabile ambiente Rifondazione Comunista – Sinistra Europea)
Il 31 ottobre del 2018 lo stato italiano firma un contratto, con il gruppo franco-indiano ArcelorMittal, per l’affitto e poi l’acquisto, nel 2021, dell’ex-ILVA.
Nel novembre del 2019 la ArcelorMittal annuncia che se ne andrà da Taranto. Senza lo scudo penale, la clausola di “non punibilità” dei gestori dello stabilimento, per eventuali danni ad ambiente e salute causati dall’attività nel periodo necessario al completamente del piano ambientale, ovvero fino al 2023, che per l’azienda rappresentava “la base del piano di risanamento”, stando alle parole della amministratrice delegata di ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli, il recesso del contratto è irrevocabile e con esso lo spegnimento degli altiforni tramite la colatura della salamandra, la ghisa residua che resta nel fondo del forno, procedura che rende poi necessari 6 mesi prima di riaccendere l’impianto e che indebolisce la possibilità di trovare un nuovo acquirente.
Lo scontro tra il governo e la proprietà della ArcelorMittal ora si gioca tra tavoli politici ed aule di tribunale.
Ma chi è il colosso franco-indiano che ha in mano le sorti di oltre 10.000 lavoratori italiani?
Un gruppo leader del settore siderurgico e minerario, che opera dall’automotive all’edilizia, dagli elettrodomestici fino agli imballaggi ed ha siti industriali in 18 paesi.
Un gruppo sulla cui attività getta ombre un fitto numero di contenziosi ambientali e un operato spesso fuori dalle regole.
È un filo nero di processi penali quello che lega Taranto al Canada, gli USA al Sud Africa, la Francia all’Ucraina*.
Nero, come i puntini sulla mappa del gioco preferito dalle multinazionali: “inquina e scappa”.
Sversamento di cianuro ed ammoniaca in Indiana, lo dice l’EPA, agenzia federale per la protezione dell’ambiente; inquinamento delle acque nella miniera del Fermont, in Quebec, tra il 2011 e il 2013 e altri 39 capi di imputazione.
La multinazionale è sotto processo per l’inquinamento della Mosella, in Francia, per sversamento nelle acque del fiume di acido cloridrico, gestione irregolare di rifiuti e funzionamento non autorizzato di un impianto.
In Sud Africa è attivo un processo per inquinamento e danni alla popolazione Sebokeng, Sharpeville e Boipatong, procedimenti che fanno assurgere la ArcelorMittal al ruolo di più grande inquinatrice di aria nel paese.
Simile situazione in Bosnia Erzegovina, con denunce delle associazioni ambientaliste sullo stato dell’acciaieria di Zenica, e in Ucraina, dove è direttamente il presidente Zelensky ad accusare la multinazionale di non tenere fede agli impegni presi.
La lista dei contenziosi di ArcelorMittal è lunga eppure, un anno fa, quando la compagnia si è presentata alla gara per acquistare l’ILVA di Taranto, nonostante la sua reputazione, l’offerta è stata giudicata la migliore.
Le promesse di mettere in sicurezza l’impianto e i terreni dove sono depositati i minerali di ferro sono parole al vento, lo stesso che sposta le nuvole di polvere rossa sulla città dove si è costretti a scegliere se lavorare o morire.
Elena Mazzoni - responsabile ambiente Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

NAZIONALIZZARE L’ILVA È IL SOLO MODO PER FERMARE LA MACCHINA ASSASSINA


Nazionalizzare l’Ilva è il solo modo per fermare la macchina assassina
Marco Revelli – IL MANIFESTO - 17.11.2019
Taranto. Fin dagli anni ’60 la storia dello stabilimento è piena di morti. Dentro e fuori la fabbrica. Ogni discussione sul suo futuro non può prescindere da questo dato di fatto

L’Ilva di Taranto è una gigantesca macchina assassina. La cifra di tutta la sua storia è la Morte (la «morte industriale» canterebbe Guccini). Da questo dato durissimo, e inconfutabile, non può prescindere ogni discussione sul suo destino (sul suo passato, sul suo presente, e soprattutto sul suo futuro): dal fatto che quello stabilimento uccide.
Uccide chi ci lavora dentro: i «suoi» operai (farebbero bene a rifletterci i sindacati che non dovrebbero difendere solo i posti di lavoro ma anche i lavoratori e le loro vite). Ne sono morti 208, per «incidenti» sul lavoro, dal primo, Giovanni Gentile, il 1° agosto del ’61 quando la fabbrica era ancora in costruzione all’ultimo, Cosimo Massaro, il 10 agosto del 2019; altre centinaia e centinaia sono morti più lentamente, divorati dal cancro, dai linfomi, dalla leucemia (tra i dipendenti Ilva di Taranto, certifica l’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro, si registra il 500% in più di malati di cancro rispetto al resto della popolazione).
E uccide chi ci abita intorno: gli sfortunati bambini dei quartieri Tamburi e Paolo VI, minati nella salute fin dal ventre materno, e i 200.000 cittadini di una città presa in ostaggio da una fabbrica feroce. «Qui – scrivono le madri e i padri organizzati nell’Associazione genitori tarantini -, le malattie iniziate in gravidanza raggiungono il 45% in più della media regionale; qui, l’eccesso di mortalità entro il primo anno di vita è superiore del 20% rispetto alla media regionale; qui, l’incidenza tumorale nella fascia di età compresa tra 0 e 14 anni è del 54% in più, mentre la mortalità infantile raggiunge un +21%, sempre rispetto alla media». Sono dati, agghiaccianti, confermati e certificati dal Ministero della salute col «Rapporto Sentieri» giunto nel 2019 alla sua V^ edizione, il quale per l’area di Taranto, trabocca di «eccessi», cioè di percentuali di ammalati superiori alla media per una lunga lista di patologie mortali.
Il resto, certo, è importante: i posti di lavoro a rischio, il contributo di quello stabilimento al Prodotto interno nazionale, il ruolo dell’Italia di grande produttore… Ma viene dopo, quei numeri che sono vite. E che se letti con l’attenzione che meritano, come la descrizione di una vera e propria strage di innocenti, dovrebbero bastare per mettere a tacere ogni fautore dello scellerato «scudo penale» – un’aberrazione giuridica oltre che morale – e della assoluta priorità della produzione d’acciaio, costi quel che costi. Eppure li abbiamo visti in questi giorni, politici degli opposti schieramenti, opinion leader delle molteplici testate, raffinati uomini di legge dai clienti facoltosi, discettare di priorità assoluta da dare alla produzione, di eccellenza italiana nell’acciaio in Europa, di necessari «bilanciamenti tra salute e lavoro», di Mittal da trattenere magari concedendole quel che vuole, come se un punto di Pil valesse centinaia di vite. E come se la Costituzione, all’art. 32, non qualificasse quello alla salute come un «fondamentale diritto», mentre il «lavoro» che pure essa tutela non può essere il lavoro che uccide, pena il suo degrado a «lavoro schiavo».
E allora è il caso di dire alcune cose chiare sulla questione. In primo luogo che i sette anni trascorsi dal primo sequestro dell’area a caldo dell’Ilva da parte di una giudice coraggiosa, Patrizia Todisco, e segnati da ben 13 decreti «salva Ilva», compreso quello sciagurato del primo governo Renzi che istituiva l’«immunità penale» per Commissari e successivi acquirenti, sono trascorsi stiracchiando la produzione e trascurando in modo indecente gli interventi a tutela di salute e ambiente. Tant’è vero che, all’ombra di quello «scudo», l’Ilva ha continuato a inquinare, che i bambini di Tamburi continuano a non poter giocare all’aperto e quando tira vento nemmeno andare a scuola, che la diossina continua a uscire dalle ciminiere dell’area a caldo, e che tumori e linfomi continuano a mietere vittime.
In secondo luogo diciamolo che Arcelor Mittal è un padrone che è meglio perdere che trovare. Un gruppo dalla vocazione predatoria che con molta probabilità fin dall’inizio della trattativa non aveva nessuna intenzione di gestire l’Ilva ma al contrario di fingere di acquistarla per suicidarla, e così eliminare un concorrente fastidioso (l’inchiesta aperta dalla magistratura milanese ci dice che più di un indizio porta in questa direzione). Sarebbe masochismo mettere nelle mani di gente simile la salute dei cittadini, il lavoro dei dipendenti e la produzione dell’area.
In terzo luogo: quello stabilimento, nato male, nel posto sbagliato, nel modo sbagliato, sessant’anni fa, oggi è un malato pressoché incurabile. Certo non curabile con i criteri «di mercato» che qualunque privato applicherebbe. Per renderlo compatibile con vita e ambiente dovrebbe essere ristrutturato da capo a piedi: riconvertito a nuove produzioni. O modificato radicalmente con tecnologie «pulite» (supposto che esistano). Per questo la caccia al prossimo acquirente sa di chiacchiera. Nessun privato si assumerebbe un tale onere, se non con intenzioni «sporche». Ricondurlo pienamente sotto proprietà pubblica – «nazionalizzarlo» se si vuole usare la parola proibita -, magari coinvolgendo, almeno una volta per Dio!, l’Europa in un grande piano di bonifica e recupero, per poi, solo a quel punto, ridotto nella condizione di non nuocere, «restituirlo al mercato» a un giusto prezzo, mi sembra l’unica opzione seria sul tavolo.
Infine, vorrei che non si dimenticassero mai – mai! – le parole con cui i Genitori tarantini hanno presentato il loro flash mob «Albe e tramonti», realizzato a luglio per ribadire che «Tutto l’acciaio del mondo non vale la vita di un bambino» e per ricordare «qualcuno che l’alba non potrà più rivederla»: «Ci sono albe e ci sono tramonti incredibilmente affascinanti. E ci sono, poi, tramonti che lasciano nel cuore una notte senza fine. Tramonti che non avremmo mai voluto vivere, ma che si ripresenteranno grazie alla spietata crudeltà propria degli infami».


mercoledì 13 novembre 2019

DICHIARAZIONE FINALE – FORUM EUROPEO DI BRUXELLES DEL 8, 9, 10 NOVEMBRE 2019


Dichiarazione finale – Forum europeo di Bruxelles
Pubblicato il 12 nov 2019
L’Europa sta vivendo un periodo sempre più allarmante di crisi politica ed economica.
Le sfide stanno diventando sempre più numerose: politiche di austerità, disuguaglianze crescenti, crisi energetica, cambiamenti climatici, gestione della Brexit, crisi migratoria, minacce alla pace, rinnovata enfasi sugli armamenti e razzismo crescente e minaccioso.
In questo contesto, il terzo Forum europeo delle forze di sinistra, verdi e progressiste, che si è tenuto l’8, 9 e 10 novembre, seguito dei forum svoltisi a Marsiglia nel 2017 e Bilbao nel 2018, è una buona notizia.
Questo forum continua a progredire e sta diventando uno spazio per il lavoro politico, la collaborazione e la valutazione di azioni convergenti per tutti coloro che desiderano promuovere un nuovo futuro per l’Europa.
Tutti i popoli e le nazioni aspirano alla libertà, alla giustizia, allo sviluppo sociale, alla solidarietà, alla pace, alla protezione dei nostri diversi beni pubblici e alla sostenibilità ambientale.
Alle recenti elezioni europee la Grande coalizione non è riuscita a raggiungere, per la prima volta, la maggioranza assoluta dei seggi. I Verdi fanno progressi. Ma la svolta della destra reazionaria e dell’estrema destra, dei difensori del patriarcato e degli xenofobi, è allarmante. Le mobilitazioni popolari e sociali hanno bisogno di uno sbocco positivo. Dobbiamo davvero lavorarci su. Dobbiamo cogliere ogni opportunità per contrastare le politiche neoliberali, autoritarie e predatorie, al fine di portare avanti soluzioni di giustizia sociale e ambientale, pace e solidarietà.
Noi, che ci siamo riuniti qui a Bruxelles, condanniamo il fatto che l’attuale configurazione dell’UE, scritta nei suoi trattati, non è né espressione di solidarietà tra le economie nazionali, né è in grado di rispondere alle emergenze sociali ed ecologiche. Sta piuttosto diventando uno strumento al servizio delle principali economie capitaliste e neoliberiste, che hanno dominato il processo di costruzione europea, progettando un’architettura istituzionale che combina globalizzazione finanziaria e produttivismo, limitando irresponsabilmente le sue politiche in materia di giustizia fiscale e ridistribuzione di ricchezza. Anche i nostri beni pubblici ne sono vittime. Il deficit ambientale non è negoziabile e il tempo passa.
Pertanto, noi che stiamo partecipando al Forum delle forze verdi, progressiste e di sinistra europee, siamo consapevoli del fatto che dobbiamo agire sulle vere cause della crisi, se non vogliamo che la situazione peggiori e porti a disastri sociali, economici ed ecologici, che saranno dannosi per la stragrande maggioranza delle persone.
L’obiettivo è costruire un’Europa socialmente ed ecologicamente sostenibile, pienamente democratica, basata sui principi della sovranità popolare, libera dal patriarcato, che combatta tutti i tipi di discriminazione e che svolga un ruolo attivo nella costruzione di un mondo multipolare di pace e solidarietà.
La costruzione di questa alternativa richiede lo sviluppo di una serie di proposte, basate su una serie di principi, tra i quali vorremmo sottolineare:
1. Combattiamo per la piena occupazione e il lavoro dignitoso, usando l’economia per migliorare le condizioni di vita della maggioranza della popolazione. Dobbiamo anticipare i principali cambiamenti che riguardano il mondo del lavoro e in particolare il ruolo sempre più importante delle piattaforme digitali. Dobbiamo anche riesaminare il rapporto dei lavoratori con i loro strumenti. Ciò significa rompere con le attuali politiche europee che causano dumping sociale e concorrenza tra i lavoratori e tra i loro sistemi di protezione sociale.
Proponiamo soluzioni: salari minimi garantiti, con una riduzione dell’età pensionabile e della settimana lavorativa, basati sulla coesione sociale e territoriale dei popoli europei, attraverso criteri garantiti per la convergenza verso l’alto in termini di salari, occupazione, protezione sociale e qualità dei pubblici servizi, nonché accordi europei di assicurazione contro la disoccupazione.
2. Affermiamo che una proposta di transizione ambientale deve includere misure che trasformano i modelli di produzione, consumo e scambio e migliorano le politiche per la lotta al cambiamento climatico, per la protezione degli animali e della biodiversità. Al centro dell’approccio non dovrebbe più essere il produttivismo ma, piuttosto, la conservazione sostenibile dei beni pubblici, ecologici, economici e sociali.
Proponiamo una nuova relazione con l’uso dell’acqua, gestita come un bene comune, rendendo le politiche agricole e della pesca più eque dal punto di vista sociale e ambientale.
Stiamo sostenendo un nuovo modello di energia europea pulito basato su energie rinnovabili, utilizzando un modello di autosufficienza energetica in cui l’approvvigionamento di energia è visto come un diritto, istituendo meccanismi per sviluppare l’efficienza energetica, stabilendo meccanismi più rigorosi di intervento e controlli sullo sfondo di un approccio democratico, attuando misure per la sovranità energetica che promuovono lo sviluppo sostenibile in settori chiave dell’economia sociale.
3. Difendiamo il posto dei servizi pubblici all’interno della società. Istruzione, sanità, alloggio e mobilità sono diritti fondamentali. Stati e popoli devono poterne rifiutare la mercificazione, per garantire la loro universalità e accessibilità.
Proponiamo di proteggere i servizi pubblici sia dalle politiche di austerità sia dalla concorrenza nel settore privato.
4. Consideriamo la promozione dell’uguaglianza di genere come un principio fondamentale dell’integrazione europea, che contribuirà a colmare l’attuale divario tra il riconoscimento del diritto, la sua garanzia nella legge e la sua effettiva applicazione.
Proponiamo di promuovere la parità retributiva e l’emancipazione delle donne attraverso l’attuazione di politiche sulla parità di genere e la formulazione di obiettivi chiari e vincolanti per il rispetto della parità di genere a tutti i livelli.
5. Sosteniamo un’Europa pacifica, priva di armi nucleari e a sostegno del Trattato sul proibizionismo delle armi nucleari (TPNW), che promuove la pace e la solidarietà tra tutti i popoli del mondo, che accetta l’inalienabilità del fondamentale civile, i diritti politici e sociali dei suoi abitanti e che sia aperta e socialmente responsabile; un’Europa che lavori per lo sviluppo di un mondo multipolare, che ponga fine alla “Europa Fortezza” con le sue politiche di migrazione selettiva e discriminatoria e che garantisca gli scambi nel rispetto dei diritti umani, che operi con pratiche commerciali eque e complementari e che rompa con la crescente militarizzazione dell’Europa e la sua sottomissione alla NATO.
6. Sosteniamo un’Europa che promuova un modello di sviluppo per le nostre società, che non sia più incentrato sul profitto a breve termine per pochi, ma sulla protezione di tutti i nostri beni comuni. Vogliamo un’Europa che ponga l’essere umano al centro di tutte le sue preoccupazioni, piuttosto che gli interessi individuali di alcune multinazionali. Dichiariamo chiaramente che questa visione è incompatibile con un’Europa neoliberale conservatrice. Vogliamo un nuovo modello democratico, supportato dalla partecipazione deliberata e inclusiva dei cittadini. Stiamo combattendo la criminalizzazione dei movimenti sociali e la persecuzione degli attivisti in Europa e nel resto del mondo.
7. Sosteniamo lo spirito del “Manifesto di Ventotene”, condannando il fatto che quell’intento, di costruire un’Europa più giusta, più sociale, più democratica, viene tradito e manipolato da coloro che, nel suo nome, promuovono lo sviluppo di una Unione Europea ultra-centralizzata, neoliberale, autoritaria, predatoria e gestita da istituzioni senza alcun controllo democratico, che hanno causato la peggiore crisi sistemica e climatica dal 1945.
In questo senso, questo Forum ha fornito contributi attraverso i vari panel, workshop e assemblee che sono stati organizzati. Tale lavoro è complementare a questa dichiarazione.
Spetta a ciascun organo politico, sociale o sindacale, tradurre questo lavoro nel suo specifico campo d’azione al fine di rendere il 2020 un anno di mobilitazione e lotta popolare, in cui possa essere espressa la volontà, di milioni di europei, di battersi per una società migliore.
Pertanto, riteniamo essenziale proseguire i lavori di questo terzo forum per tutto il 2020, attraverso l’attuazione di un piano d’azione condiviso con i movimenti dei cittadini, i movimenti sociali e i sindacati, un piano che è stato discusso in vari panel, assemblee e workshop .
Chiediamo a tutti i popoli d’Europa di sostenere la lotta di femministe, sindacalisti, ambientalisti, soggettività LGBTQI, cittadini e pacifisti, nonché la lotta sociale; chiediamo inoltre la partecipazione ai movimenti di mobilitazione, per far fronte alle aggressive politiche economiche e militari promosse dal governo degli Stati Uniti. Chiediamo la mobilitazione contro l’estrema destra e le idee che introduce nel dibattito politico.
Pertanto, quelli di noi che si sono incontrati a Bruxelles nel corso di questi giorni, stanno accettando la sfida di lavorare per garantire che, le opportunità di cooperazione e coordinamento tra le forze pluralistiche che partecipano a questo Forum, continuino attraverso le varie azioni civiche, sociali, politiche, sindacali ed istituzionali che si svilupperanno nel corso del 2020.
Al fine di far progredire questa cooperazione e coordinamento e garantire la continuità dei gruppi di lavoro esistenti, garantiremo che il gruppo di lavoro, che è attivo dal primo Forum, continui e implementeremo il coordinamento delle politiche con la rappresentazione dei tre pilastri che compongono il forum e il coordinamento esecutivo, che assicureranno che i compiti e gli obiettivi, che abbiamo approvato in questi giorni, siano seguiti e sviluppati.
Infine, proprio a partire da questo momento, chiediamo l’avvio dei preparativi per il quarto Forum, come continuazione della nostra volontà comune.
Bruxelles, 8-10 novembre 2019

domenica 3 novembre 2019

IL MAGGIORITARIO E' L'ERBA SOTTO I PIEDI DEL POPULISMO - DA "IL MANIFESTO" DI F. PALLANTE


Il maggioritario è l’erba sotto i piedi del populismo
Legge elettorale. Il rischio concreto è che, applicandolo a un Parlamento di queste dimensioni, alle prossime elezioni la destra arrivi non alla maggioranza assoluta, ma ai due terzi dei seggi
Francesco Pallante – IL MANIFESTO - 02.11.2019
La vocazione maggioritaria, ancora lei. Era il 2007, al Lingotto di Torino. Walter Veltroni, segretario in pectore del nascente Partito democratico, usò una oscura espressione: «Il Partito democratico deve avere in sé un’ambizione, al tempo stesso, non autosufficiente ma maggioritaria».  E continuava: «… L’elettorato è razionale, mobile, orientato a scegliere la migliore proposta programmatica e la migliore visione. Fiducia in questa vocazione maggioritaria significa oggi lavorare per rafforzare l’attuale maggioranza. Io rispetto e stimo i nostri partner della coalizione».
SAPPIAMO bene come andò a finire: con rispetto e stima, il Pd mise i partner della coalizione sotto schiaffo del voto utile e, correndo da solo alle elezioni del 2008, ottenne il loro annichilimento.
Da quelle votazioni scaturì la più grande maggioranza parlamentare della storia repubblicana: a favore di una coalizione di centrodestra. La cosa straordinaria è come una storia di così clamoroso insuccesso sia stata assunta a mito fondativo dell’esperienza politica del Partito democratico. Un po’ come la sconfitta subita per mano dell’esercito ottomano a Kosovo Polje nel 1389 è assurta a vicenda caratterizzante il nazionalismo serbo. Gli elettori saranno forse razionali (ne siamo proprio sicuri?); i gruppi dirigenti sembrerebbe di no.
COME ALTRO spiegare, altrimenti, la pervicacia con cui, da alcuni mesi, l’intero gotha democratico si è scatenato a demolire ogni ipotesi di ritorno alla legge elettorale proporzionale, evidentemente l’unica prospettiva razionale – nella situazione politica che si va configurando – attraverso cui provare a mettere in sicurezza la democrazia costituzionale?
Ad Arturo Parisi («riproporre la vocazione maggioritaria è un dovere … l’approdo della politica è il governo e non la semplice rappresentanza»: Democratica.com, 26.6.2019) ha subito fatto eco Romano Prodi («una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo»: Corriere della Sera, 4.9.2019); poi è stata la volta di Walter Veltroni («se noi torniamo al proporzionale, sarà il festival della frammentazione. … Il Paese ha bisogno di governabilità»: Cartabianca, 11.9.2019). Buon ultimo è arrivato, su queste pagine, Enrico Morando (25.10.2019). Intervistato sull’opportunità di adottare una legge elettorale proporzionale, ha negato con decisione: «questo crea le condizioni per non avere, nel campo del centrosinistra, una formazione dotata di vocazione maggioritaria». Difficile riuscire a essere meno tempestivi: nemmeno 48 ore dopo, le elezioni umbre proiettavano Lega e Fratelli d’Italia, da soli, a un passo dal 50%. Mentre il Pd continua a inseguire la vocazione maggioritaria, la destra estrema è oramai a un passo dal realizzarla.
È UNA SITUAZIONE drammatica. A destra c’è una proposta politica orribile e pericolosa, ma chiaramente individuabile. Dall’altra parte non c’è nulla di analogo: l’unica cosa evidente è una disperata alleanza difensiva finalizzata ad allontanare il più possibile il momento della resa dei conti. Per impedire a Salvini di riprendersi con gli interessi il governo perduto in agosto ci vorrebbero politiche capaci di tagliare l’erba sotto i piedi del populismo. C’è qualcuno disposto a scommettere che è quanto avverrà nei prossimi mesi?
L’auspicio, naturalmente, è di perdere la scommessa. Nell’attesa che si realizzi il miracolo, tuttavia, è indispensabile mettere in sicurezza della democrazia. Possibile che la coalizione di governo sia insensibile a questo argomento? Dal punto di vista democratico, non si tratta di alterare alcunché. La destra, come tutte le forze politiche, avrà i voti che avrà: ma perché regalarle più seggi di quelli che corrisponderebbero al consenso ottenuto? La legge elettorale proporzionale può essere accusata di molti difetti: dipende dall’idea di democrazia che si assume, soggettivamente, come propria. Ma ha un innegabile pregio oggettivo: dà a ciascuno il suo, senza togliere né regalare niente a nessuno. Sotto questo profilo, è una legge giusta. Tanto più, avendo – così avventatamente e radicalmente – ridotto il numero dei parlamentari.
IL RISCHIO concreto è che, applicando il maggioritario a un Parlamento di queste dimensioni, alle prossime elezioni la destra arrivi non alla maggioranza assoluta, ma ai due terzi dei seggi. Dopodiché i decreti sicurezza, la flat tax, la regionalizzazione dei diritti, la repressione del disagio sociale, l’oscurantismo morale, l’uso politico della religione, ecc. ci sembreranno ben poca cosa: a finire nel mirino sarà direttamente, e integralmente, la Costituzione, senza nemmeno la garanzia del referendum oppositivo a cui appellarsi.
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