martedì 30 agosto 2016

BREVE STORIA DEI 35 EURO

Breve storia dei 35 euro
di Stefano Galieni - Responsabile immigrazione e pace P.R.C.

Non solo fra i seguaci di Salvini ma anche in un pensiero comune, si levano segnali di insofferenza rispetto all’accoglienza riservata in Italia ai profughi e migranti, in relazione soprattutto ora alle condizioni di coloro che hanno subito i danni del terremoto. Se un noto quotidiano cerca di accaparrarsi acquirenti mettendo in copertina le foto contrapposte di “italiani” nelle tendopoli ed eleganti migranti davanti ad un albergo commettendo semplicemente il reato di falsa informazione, più subdoli sono i meccanismi che penetrano in maniera viscerale negli ambiti meno informati della società. Occorrono informazioni semplici per rompere questo meccanismo ed occorre anche fare proposte in avanti, che guardino alla prospettiva e non alla onnipresente emergenza. Proviamo in piccole pillole informative, utili a chi, magari al bar o su un autobus, voglia provare a smentire simili menzogne.
Una premessa, dei circa 111 mila richiedenti asilo o protezione umanitaria presenti in Italia al 31/3/2016 (ultimo dato reso noto dal Ministero dell’Interno) oltre il 72% sono in strutture denominate CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) gli altri sono nei diversi centri che corrispondono diverse situazioni. Una parte è in case di accoglienza per minori, 23.000 circa sono nel sistema SPRAR (Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) altri nei CPSA (Centri di primo soccorso e accoglienza) negli Hotspot, nei CARA (Centri Accoglienza Richiedenti Asilo) nei CdA (Centri di accoglienza), meno di 250 sono nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) gli unici in cui si potrebbe privare della libertà personale i migranti senza infrangere leggi fallimentari come la Bossi Fini. In realtà l’esperienza di chi ha visitato le altre tipologie di centro si rende conto di quanto la libertà sia discrezionale.
Semplificando potremmo dire che esistono di fatto due sistemi paralleli dell’accoglienza, gli SPRAR, gestiti dagli enti locali e i CAS dalle prefetture. Gli ormai famosi 35 euro al giorno vanno a pagare le intere spese di accoglienza, cibo, assistenza sanitaria, psicologica, operatori e medici, spese logistiche, utenze, rientrano insomma in un circuito di cui a beneficiare sono soprattutto istituzioni italiane. Quasi il 30% dei 35 euro giornalieri serve a pagare gli stipendi degli operatori dell’accoglienza che svolgono  un lavoro duro su cui certo non si arricchiscono e sovente con contratti totalmente inadeguati. Ai richiedenti asilo viene corrisposta una diaria giornaliera di 2,5 euro, circa 75 euro al mese. In molti centri questa somma (chiamata pocket money) può essere spesa solo all’interno del centro.
libero
Il sistema Sprar, per quanto in maniera non omogenea, è quello che si è rivelato migliore. Sono i Comuni a decidere quante persone prendere, a chi affidare la gestione dei servizi e come impiegare le risorse messe a disposizione. I Comuni debbono anche contribuire direttamente a tale gestione, con il 5% delle spese, garantire accoglienza “integrata” (dai corsi di lingua alla formazione lavoro) e rendicontare fino all’ultimo centesimo con fatture ogni spesa effettuata. Molti comuni hanno fatto la scelta meritoria di perseguire l’accoglienza diffusa, predisponendo appartamenti in cui piccoli gruppi o nuclei familiari possano costituire una propria indipendenza e autonomia responsabilizzandosi nella gestione dello spazio. In tali contesti gli “operatori” non vengono percepiti come “guardiani” ma amici a cui relazionarsi per risolvere anche problemi di conflittualità, legati ai tempi di attesa per la richiesta di asilo, o semplicemente di sostegno alla costruzione di una normale quotidianità. Quando questo si realizza difficilmente c’è scontro con la comunità ospitante.
Il sistema CAS è invece più problematico. Si tratta sempre di centri (ce ne sono oltre 3000 in tutta Italia ma il Ministero dell’Interno si rifiuta di rendere pubblico sia dove sono ubicati sia quale è l’ente che li gestisce). L’ubicazione la decide, sentiti magari gli enti locali, alla fine la prefettura. Lo scopo è duplice, da una parte i Comuni si chiamano fuori da qualsiasi responsabilità anche verso i propri elettori, dall’altra le prefetture hanno pressoché mano libera nel decidere sede del CAS ed ente gestore. L’ente gestore percepisce i 35 famosi euro al giorno per persona, senza dover documentare come li ha spesi ma solo in base al numero degli ospiti. E qui viene il bello?
Chi ha inventato il sistema CAS? Si tratta del noto buonista e bolscevico Roberto Maroni, oggi Presidente della Regione Lombardia all’epoca (2011) ministro dell’Interno. C’era la cosiddetta Emergenza Nord Africa e Maroni istituì i CAI (Centri di Accoglienza per Immigrati). In nome dell’emergenza se ne fecero in ogni luogo e senza controlli e alcuni finirono anche, su richiesta dei proprietari, negli hotel in quel periodo vuoti, Da ricordare il caso di Montecampione, in provincia di Brescia dove vennero ospitati oltre 200 migranti provenienti da Lampedusa e con indosso magliette e infradito quando la temperatura notturna a luglio era vicina agli zero gradi. Ma l’albergo era vuoto e “casualmente” la società che ne era proprietaria era la stessa che gestiva un famoso albergo a Lampedusa in cui alloggiavano sottufficiali e ufficiali delle forze dell’ordine. L’imprenditoria padana anche di stampo leghista non considerava affatto una invasione questa ma un utile stimolo alla propria attività. Lo stesso ragionamento che farà una nota famiglia della criminalità organizzata romana continua ad esser pagata perché mette a disposizione un proprio albergo. Il “caro” Maroni (in senso di costoso) garantiva all’epoca 50 euro al giorno per ogni ospite ma la memoria è corta. Corta e poco pragmatica anche come Presidente di Regione che vorrebbe gli “sfollati” del terremoto nell’ex Expo se non spostare addirittura i padiglioni verso le zone colpite dal sisma. Lo stesso Maroni che blatera dicendo che le case popolari se le prendono “gli immigrati” e poi ha tagliato del 50% i fondi per l’edilizia pubblica colpendo tutti i lumbard. Problemi di memoria o furbizia?
I soldi che vanno agli immigrati debbono essere destinati ai terremotati. Si, abbiamo sentito dire anche questo ma peccato che non si dicano alcune cose.
1) Che i soldi per l’accoglienza, oltre che dare lavoro a tanti concittadini, provengono dall’UE e da specifici fondi quindi non utilizzabili per diverse causali.
2) L’UE ha assicurato interventi anche per le zone terremotate, nessuna concorrenza quindi.
3) A tagliare i fondi per le emergenze, magari per comprare gli F35 o salvare le banche, non certo per darli ai profughi, sono stati i nostri governi che non sembrano essere composti da richiedenti asilo.
4)Viene il dubbio che chi tanto si accalora per contrapporre persone in disagio abbia avuto a che fare nel passato o magari aspiri a farlo in futuro, con l’affare della ricostruzione quella che, per dirla col cinismo di Vespa fa girare l’economia. Beh in perfetta malafede viene da pensare che gli occhi andrebbero puntati più che su chi vive in centri di malaccoglienza (a tal proposito si consiglia la lettura del rapporto Accogliere La vera emergenza redatto dalla Campagna LasciateCIEntrare ) su chi ha realizzato costruzioni non a norma antisismica e si prepara a fare affari come nelle passate esperienze.
5) A dimostrazione che la legge non è uguale per tutti e che la memoria serve va fatta presente una notiziola passata sotto silenzio. Dopo il terremoto dell’Emilia del 2012 ci sono ancora nuclei familiari nei container e non per propria scelta ma a cui stanno togliendo anche i pochi spazi di visibilità intorno mentre gli appartamenti promessi non sono ancora pronti. Si tratta esclusivamente di famiglie a basso reddito e nella quasi totalità di origine straniera.
Cosa si potrebbe invece fare? Per evitare tensioni anche comprensibili ma mai giustificabili quando si trasformano in istigazione all’odio razziale basterebbe poco. Basterebbe incentivare il sistema Sprar (quello dei Comuni) garantendo per esempio sgravi fiscali agli enti locali che ospitano o la possibilità di sforare i patti di stabilità che strangolano le amministrazioni. Nulla di rivoluzionario, ovviamente accanto al meccanismo premiale dovrebbe esserne previsto uno punitivo verso chi in nome del proprio diritto al lusso vorrebbe impedire ogni forma di accoglienza (cfr Capalbio). In questa maniera sparirebbero i centri sovraffollati, le persone potrebbero entrare in circuiti di autonomizzazione, magari recuperando stabili in disuso e facendoli poi ridivenire patrimonio pubblico da riutilizzare, si costruirebbero percorsi in cui la distanza fra accolti e accoglienti potrebbe diminuire. Certo si toglierebbe potere alle prefetture e le amministrazioni avrebbero maggiori responsabilità ma è una sfida da accettare. Utopia? Affatto. Persone inserite nel tessuto sociale sarebbero in grado di non dover essere più assistite con conseguente anche risparmio di risorse. Persone che potrebbero essere avviate anche a percorsi lavorativi regolari e non allo sfruttamento bracciantile o delle economie grigie.
Questo in una prima fase

Occorrerebbe poi che chi ci governa invece di celebrare patetici rituali sulle portaerei al largo di Ventotene per sancire la fine dell’Europa sognata da tanti, ad esempio operasse per l’abolizione del Regolamento Dublino che obbliga le persone a fermarsi nel primo paese UE in cui si arriva, garantire di poter entrare in UE non con il solo stratagemma dell’asilo ma per ricerca occupazione, permettere a chi arriva da zone di guerra di non dover passare nelle mani dei trafficanti. Se accadesse questo (ma è impossibile con l’UE di oggi anche in questo frangente irriformabile) sarebbe più difficile per i tanti populismi xenofobi di cui è pieno il continente, riscuotere successo e lucrare politicamente anche dopo un terremoto.

lunedì 29 agosto 2016

FRECCERO - VESPA, SORDI, DELRIO E LO SPIRITO DEL TEMPO


Vespa, Sordi, Delrio e lo spirito del tempo
di Carlo Freccero da “il manifesto”
Ho avuto un déjà-vu. Lo speciale di Rai1 sul terremoto ha preso nettamente le distanze dal copione consolidato di tv del dolore che, vampirescamente, cerca di estrarre audience dall’esibizione oscena della sofferenza dei morti, dei feriti, dei superstiti. Lo speciale era declinato in tutt’altra chiave.
Un Bruno Vespa, carico e vitale, dirigeva il dibattito alternando didattica ed ottimismo. Il succo di tutto era il terremoto come opportunità. Opportunità economica di ricostruzione, volano dell’economia, possibile incremento del Pil. Così come quella guerra che gli economisti raccomandano, in casi di crisi deflazionistica come l’attuale, come unica soluzione per la ripresa economica.La disgrazia è, in sé, un’opportunità. Sempre. Perché, in una crisi di consumi dovuta alla svalutazione dei salari, sposta la produzione dal voluttuario al necessario. Dove c’è guerra o morti ci sono consumi coatti: armamenti, ricostruzione edilizia. Ma anche casse da morto, ospitalità e catering degli sfollati, edilizia pubblica.
Una per tutte. La scuola antisismica di Amatrice, la cui messa in sicurezza aveva già rappresentato risorse per l’edilizia è nuovamente crollata per creare, bontà sua, nuovi posti di lavoro. Ed infatti, anche l’interlocutore di Vespa, il ministro Delrio, sembrava consapevole di quanto un governo in crisi debba essere grato alle catastrofi che possono cancellare, in nome della solidarietà, il conflitto sociale e capovolgere, con lo sfruttamento delle industrie della morte, la morte dell’economia.
Tutto questo era un déjà-vu, perché mi ricordava il cinismo di una commedia all’italiana d’epoca, tutta costruita sul personaggio poliedrico di Alberto Sordi, «Finché c’è guerra c’è speranza» in cui, un trafficante d’armi, trae dalla guerra le sue opportunità. C’è però una differenza. Il film era la denuncia del cinismo di un singolo. Qui il ministro Delrio ha dato all’equazione terremoto = opportunità il suo imprinting istituzionale dichiarando: «Oggi l’Aquila è il più grande cantiere d’Europa». E a ben vendere, in un’Italia che ha da tempo privatizzato le sue industrie pesanti, l’unica industria statale produttiva è stata, negli anni scorsi, la Protezione Civile di Bertolaso.
Le reazioni alla trasmissione si possono dividere in due gruppi.
Da un lato lo sdegno della rete che ha bollato Vespa di sciacallaggio. Dall’altro la reazione misurata della stampa che, se non ha ignorato l’evento, si è domandata invece dove risieda lo scandalo.
Vespa ha rivelato verità che qualsiasi economista potrebbe sottoscrivere. Anche Keynes. In una realtà economica ingessata da vincoli di bilancio sulla spesa pubblica, la spesa coatta che scaturisce dal terremoto, rappresenta comunque un’opportunità di lavoro.
Qual è la mia opinione in proposito? Non mi riconosco né nell’una, né nell’altra reazione.
Vespa non è cinico, è cinico il sistema che la trasmissione ha portato alla luce. La riprova è la difesa d’ufficio della stampa nei confronti di Vespa in quanto dice la verità. La verità è sempre legata ad una visione del mondo, un’episteme, uno spirito del tempo.
Rivelando le aspettative del potere in crisi, Vespa non è altro che il fanciullo che denuncia la nudità dell’imperatore, nella famosa favola. E lo fa strizzandogli l’occhio per dire «anch’io ho capito tutto».
Siamo di fronte all’ennesimo caso in cui l’opinione pubblica si spacca perché si muove sulla base di visioni del mondo diverse. La massa risponde ancora a quell’empatia che fa sì che ogni essere vivente, condivida con i suoi neuroni specchio le sofferenze del prossimo. Le élite rivelano invece uno spirito centrato sul bene supremo dell’economia.
Ci sono catastrofi che sacrificando il singolo, giovano alla comunità. Anche Bush, dopo l’11 settembre, ha parlato di opportunità. Ma sono queste le opportunità che vogliamo?
Da tempo abbiamo identificato la casta con chi spende e spande, con chi gira in auto blu e fa la cresta sui pranzi ufficiali.
Il senso è che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che, se questo mondo non funziona è per lo spreco e la corruzione.
E se invece cominciassimo a pensare che un mondo che sacrifica i cittadini per il bene dell’economia, non è il migliore dei mondi possibili perché offende i principi primari di solidarietà e altruismo?
Foucault ci ha insegnato che il potere non è altro che l’applicazione di una forma di sapere. Ha sottoposto a critica il potere che gli era contemporaneo denunciando la biopolitica, la politica sociale, impegnata a mantenere la vita del cittadino ad ogni costo, come una forma di assoggettamento e controllo.
Ma non è forse peggio un sapere che non privilegia la vita di fronte all’esigenze superiori dell’economia?
Vespa da portavoce del sistema ha il pregio di esprimere sempre lo spirito del tempo nella sua nuda realtà. Ed è in grado di farlo perché ha da tempo accantonato l’ipocrisia di chi vuol compiacere le masse.
Ma le masse hanno a loro volta la colpa di essersi adagiate sul pensiero unico. Di fronte ad eventi che squarciano la coltre di retorica di cui il pensiero unico si ammanta per sopravvivere, ci sono due possibili reazioni. O invochiamo censura e repressione nei confronti dell’oscenità del reale, per continuare a vivere con la testa conficcata nella sabbia. O decidiamo che questo non è il migliore dei mondi possibili e nemmeno l’unico mondo possibile, e cominciamo a pensare ad un’alternativa.

Fonte: Il manifesto, 28 agosto 2016

giovedì 18 agosto 2016

L'ANPI DICE NO AL PENSIERO UNICO. INTERVISTA A LIDIA MENAPACE

L'Anpi dice No al pensiero unico. Intervista a Lidia Menapace

Intervista a Lidia Menapace di Marco Pasciuti

“Il Pd è abituato a pensare che le vecchie organizzazioni legate al Partito Comunista fossero a disposizione. E’ stato così in passato, ma oggi non è più così“. Perché il tempo in cui il Pc “era quasi una chiesa” cui “le persone obbedivano anche quando non erano d’accordo” è finito, avverte Lidia Menapace, classe 1924, “partigiana combattente con il grado di sottotenente”, specificava orgogliosa a Giovanni Floris che a maggio la intervistava a Di Martedì sul distinguo tra i partigiani “veri” che votano sì al referendum sulle riforme costituzionali e tutti gli altri coniato da Maria Elena Boschi.
Un altro scontro con il Pd, che ha invitato l’Anpi alla festa dell’Unità di Bologna, ma ha messo una regola: niente banchetti e volantini per il “no” al referendum sulla riforma costituzionale.
“Che stupidaggine. E’ come dire a qualcuno ‘Ti invito a pranzo, però l’importante è che non mangi‘. E’ una questione impostata male fin dall’inizio perché nell’Anpi è passata a stragrandissima maggioranza, il 97% dei delegati al congresso, la posizione di votare no al referendum. Anche se a quelli di noi che hanno un’opinione contraria, nessuno vieta di votare ‘Si’. Ora, questa cosa ha creato dissapori perché l’associazione è sempre stata molto sensibile alle richieste provenienti dall’ex Partito Comunista e da ciò che da quest’ultimo è venuto fuori in seguito. Ora però provare a cancellare il fatto che la stragrande maggioranza dell’Anpi non ne vuol sapere disconciare la Costituzione, no, non è una cosa ben fatta”.
“Siete voi che venite a casa nostra”, ha risposto il Pd. La sinistra, questa sinistra, non è più la casa dei partigiani?
“Guardi, una volta il partito, il Pc dico, era quasi una chiesa, si aderiva alle sue posizioni con un atteggiamento quasi fideistico, le persone si turavano il naso e obbedivano anche quando non erano d’accordo. Ma è un tipo di cultura politica che appartiene al passato. Non dico che sia da buttare via, ma oggi non è più utilizzabile. Non è possibile pretendere sempre l’unanimità. Io ho fatto la Resistenza, ho lottato in Val d’Ossola dove c’era una Repubblica che era unitaria ma in cui si confrontavano anche a furia di urla diverse anime e non c’era un pensiero uniforme o unanime“.
Come avviene nell’Anpi, dove c’è chi voterà ‘Sì’ al referendum. L’inizio di una spaccatura?
“Quelli che votano sì sono certamente favorevoli a Renzi, ma questo non vuol dire che l’associazione si spaccherà. Quelli di noi che hanno partecipato attivamente alla Resistenza sono vicini alla scomparsa. Ma il passaggio del testimone è già avvenuto a Torino, due congressi fa, quando l’Anpi si è aperta ai giovani e ha visto aumentare i tesseramenti. Quindi non è vero che il passaggio da una generazione a un’altra debba essere traumatico e comportare necessariamente una rottamazione, come la chiama Renzi“.
Qual è allora il motivo di queste continue incomprensioni tra l’Anpi il Pd?
“Il Pd è abituato a pensare che le vecchie organizzazioni legate al Partito Comunista fossero spontaneamente a disposizione. E’ stato così in passato, ma oggi non è più così. E’ una delle ultime conseguenze di quella cosa grande e importante – peccato che sia finita male – che era il Pci con tutte le sue organizzazioni di massa. Però è una cosa datata, finita“.
A maggio la Boschi con la distinzione tra partigiani “veri” che votano ‘Sì’ al referendum e tutti gli altri e il paragone con Casapound, ora il comune di Firenze che non invita l’Anci alla Festa della Liberazione e le condizioni poste dal Pd a Bologna. C’è una strategia?
“Nessun gesto politico è innocente, qualche finalità se la pone sempre. Ma arrivare a pensare a una strumentalizzazione mi sembra eccessivo. Noto, invece, una certa insofferenza verso il dissenso“.
La posta in gioco al referendum è molto alta, troppo alta per dare spazio al dissenso.
“Renzi ha rischiato troppo, nessuno glielo ha chiesto di mettersi in prima linea come ha fatto. Ha sbagliato i calcoli. Se la sinistra esiste ancora, cosa di cui parecchi dubitano, di certo non sta nel Pd. E’ la grande questione politica ancora aperta e, siccome è di grande importanza, sarebbe bene affrontarla con prudenza, evitando atteggiamenti del tipo ‘Chi non vota come diciamo noi non è partigiano’, come fa la Boschi. Che farebbe meglio a restare in silenzio”.
L’atteggiamento del presidente del Consiglio è simile a quello di molti dei suoi predecessori: “Dopo di me, il diluvio”.
“Guardi, non sono del Pd, ho un giudizio non buono di Renzi. Anzi, dico una vera carognata: mi fa pensare a Fanfani, ma non nel senso che è democristiano. Fanfani era aretino, Renzi è fiorentino e dare dell’aretino a un fiorentino è un’offesa che non può essere lavata neanche con il sangue. Non posso pensare che il destino dell’Italia sia legato alle sorti del governo Renzi, perché questo è un ricatto e non un discorso politico”.


Da IL FATTO QUOTIDIANO

martedì 16 agosto 2016

CAMPAGNA DELL’ANPI PER IL NO - APPASSIONATI DI DEMOCRAZIA

CAMPAGNA DELL’ANPI PER IL NO - APPASSIONATI DI DEMOCRAZIA

1 Contrariamente ad ogni regola o prassi, è il Governo che ha impostato,
voluto e portato avanti, a colpi di fiducia, la riforma costituzionale, riducendo
drasticamente le discussioni in Parlamento, perfino sostituendo
alcuni membri della Commissione affari costituzionali, perché non seguivano
la linea governativa. Così questo è inaccettabile.

2 La riforma del Senato, concomitante con la Legge elettorale, fa evolvere il
sistema in senso antidemocratico, perché restringe la rappresentanza,
riduce i poteri dei cittadini, incide sull’esercizio della sovranità popolare
(che è consacrata nella prima parte della Costituzione).

3 È giusto “fare”. Ma bisogna fare bene e non stravolgendo la Costituzione.
Il Senato, come esce dalla riforma, è un mostriciattolo, che non è né carne
né pesce, non rappresenta i cittadini, ma neppure il sistema delle autonomie;
è composto da “Senatori” a mezzo tempo, che dovrebbero fare leggi
anche importanti, mentre svolgono l’onerosa funzione di Sindaco o quella
di Consigliere regionale.

4 Il sistema non è alleggerito, ma anzi complicato; non viene eliminato il
bicameralismo perfetto, ma vengono escogitati una serie di sistemi e di
rapporti tra le due Camere, che complicheranno tutto e creeranno contrasti e
problemi per la Corte Costituzionale che dovrà dirimere potenziali conflitti.

5 Non si riduce il numero dei parlamentari seriamente perché non lo si fa in
modo proporzionale tra Deputati e Senatori; ma si incide solo sul numero del
Senato creando disparità evidenti tra le due Camere e una sorta di “sudditanza”
dei Senatori, ridotti a solo 100, a fronte dei 630 della Camera.

6 Non si riducono le spese, perché resteranno in piedi tutte le strutture organizzative,
di personale e di studio del Senato, che sono le più rilevanti; e
perché è certo che poi ci vorranno le diarie e i rimborsi spesa per i Senatori
(Sindaci o Consiglieri regionali ) per le loro trasferte a Roma.

7 Si rinforza il potere dell’esecutivo, perfino mettendogli in mano l’agenda
del Parlamento, che dovrà dare una precedenza vincolante a ciò che il
Governo ritiene urgente; e si realizza una concentrazione di potere inaudita,
nel rapporto riforma del Senato-legge elettorale, finendo per prospettare,
sotto il mito della governabilità, il dominio di un solo partito (o peggio, di

un solo uomo).



lunedì 1 agosto 2016

Smuraglia: “Non scoraggiamoci, prepariamo la più grande campagna referendaria che sia mai stata realizzata”

Smuraglia: “Non scoraggiamoci, prepariamo la più grande campagna referendaria che sia mai stata realizzata


Si è concluso il deposito delle firme in Cassazione. I nostri Comitati non hanno raggiunto il numero sufficiente, pur avendo compiuto uno sforzo notevole, contro tutto e tutti. Non ci scoraggiamo, siamo orgogliosi e riconoscenti del lavoro che molti e molte hanno compiuto e ci prepariamo, come ho già accennato altre volte, alla più grande campagna referendaria “dal basso” che sia stata realizzata. Dico dal basso, perché non potendo contare sui grandi organi di comunicazione e di “informazione” (!) dobbiamo usare l’antico sistema del “porta a porta”, del colloquio diretto con cittadine e cittadini; e lo faremo con coscienza, impegno e serietà. I sostenitori del SI hanno depositato le firme sostenendo di avere superato il livello previsto dalla legge. I controlli della Corte di Cassazione sono previsti proprio per verificare la regolarità delle firme ed accade spesso che molte risultino inammissibili. Staremo a vedere. In ogni caso, non cambierà nulla, perché ciò che conta sarà la campagna che andremo a fare nei prossimi mesi (non abbia paura il lettore, parlo di settembre e ottobre, non di agosto). In ogni caso, un’altra stranezza è questa incertezza sulla data del referendum. È evidente che si stanno facendo calcoli di pura convenienza; e già questo non è bello, perché la scadenza vera dovrebbe essere quella della data che consenta la maggior partecipazione.
Infine continuano i segnali dei “poteri forti”: Confindustria, Coldiretti, adesso anche quella stampa internazionale più vicina alle opinioni di chi dichiarò, tempo fa, che le Costituzioni europee erano spostate troppo “a sinistra” e dunque bisognose di modifiche (naturalmente a favore di soluzioni non democratiche). Che posso dire se non che potrebbe trattarsi di segnali che, alla fine si risolveranno positivamente, se tanti incerti e “incoscienti” si renderanno conto che la posta in gioco riguarda anche il nostro sistema democratico e perfino il quadro economico?
Una piccola postilla. A proposito del fallito golpe in Turchia, un commentatore scrive – su un quotidiano nazionale – un articolo con questo titolo “Non c’è stabilità senza democrazia”. Giustissimo. Nel caso specifico, il principio vale sia per Erdogan che per i militari. Ma più in generale, il pensiero va a quanti sostengono che bisogna votare SI perché questa riforma garantisce la “stabilità” (o la governabilità) evidentemente a qualunque costo, anche sacrificando la rappresentanza, ossia, in sostanza la democrazia. Quel titolo è dunque un ammonimento per tutti e vale anche per il referendum, spiegando ulteriormente e in poche parole, le ragioni del nostro NO.



Carlo Smuraglia, presidente nazionale A.N.P.I.
Grazie per le visite!
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