L’antiliberismo non è monoteistico
di Giovanni Russo Spena
Associarsi contro il
capitale, la cosiddetta forma/partito, è un tema classico, non meramente
organizzatorio, del movimento operaio. Classico e drammatico, per le profonde
fratture che ha generato all’interno del movimento comunista, non solo quello
“eretico” ma quello “ufficiale”. Tralascio l’analisi delle teorie novecentesche
(che pure sarebbero attuali, dalla “democrazia di investitura” di Schumpeter
alla “democrazia parlamentare” di Kelsen). Mi interessa dialogare su un punto:
può, oggi, un partito a struttura tradizionale, con una propensione
centralizzata, oligarchica, sostanzialmente politicista, riunificare, nella
società, ciò che il liberismo ha diviso?
Anticipo la mia risposta:
credo, invece, a percorsi costituenti, la cui forma valorizzi le autonomie
culturali, politiche, sociali. Credo alla pluralità, non alla riduzione ad uno.
Argomento partendo proprio dai “classici ” del pensiero comunista , perché
questo dibattito è stato rimosso (anche nel movimento comunista la storia
l’hanno riscritta i vincitori, come sappiamo). Gramsci scrive nei Quaderni: “i
partiti non sono che la nomenclatura delle classi, gli organizzatori delle
forze egemoniche nei rapporti di forza”. I partiti vanno separati dallo Stato,
riportati nella società.
E’ dell’oggi che parliamo:
cittadini senza politica, politica senza cittadini. “E’ un errore cercare la
base reale della propria agitazione non negli elementi concreti del movimento
delle classi, bensì di voler prescrivere a tale movimento il suo corso in base
ad una certa ricetta dottrinale”. Così scriveva Marx in polemica con le “sette
socialiste”. I pensieri politici (e le forme della politica) sono figli del
conflitto. L’affermazione di Marx è certamente dettata anche dal 1848, l’anno
delle rivolte popolari in Europa La soggettività è collegata alla sua capacità
di associare ed esprimere conflitto ,con articolati processi di
autoemancipazione collettiva. Il partito, insomma, evita la deriva oligarchica
se si socializza nelle pratiche. La ricostruzione dello spazio pubblico nasce,
oggi, solo da una fitta rete conflittuale. Nessuno si salverà da solo. E’ tempo
dell’organizzazione orizzontale. Altrimenti la politica muore (è, infatti, se
nulla cambia, già morta); e si generano identità popolari aclassiste , terreno
di coltura di conflitti nazionalistici, interetnici, xenofobia diffusa
alimentata dal razzismo degli Stati. Già Lumhann ci avvertiva che il partito
tradizionale rappresentava una società che definiva “semplice”, ma falliva di
fronte alla nuova “complessità sociale “. Rifiuto l’intrinseco “monoteismo” del
pensiero patriarcale, economicista ,politicista. Non vi è, infatti, un solo
soggetto politico onnicomprensivo; tutti i soggetti sono politici se percorrono
l’intero arco del conflitto e della rappresentanza. Ogni soggetto può essere
parte di un ”sistema di coalizione” alimentato da un gramsciano “spirito di
scissione” contro la statualità liberista e capitalista.
Luciano Gallino ha scritto
di ”cattura cognitiva” perché dinanzi ai grandi stravolgimenti epocali il
divario destra/sinistra non esiste più. Non esiste più anche perché soffocato
dentro la cosiddetta “democrazia governante” maggioritaria. Nel revival
truffaldino della “fine delle ideologie” , le uniche ideologie rimaste in campo
sono il “pilota automatico” di Draghi e l’attacco di J.P.Morgan e della nuova
Commissione Trilaterale alla Costituzione nata dalla Resistenza, ritenuta
“bolscevica”. I populismi congiunti della Presidenza del Consiglio (il più
pericoloso perchè il populismo del potere è già regime) e di una opposizione
aclassista e giustizialista hanno rimosso dalla politica perfino i “corpi”, i
bisogni, i desideri dei soggetti sociali in carne ed ossa. Sennet, in una
splendida narrazione, partendo dalla resistenza popolare contro il capitale,
del suo associarsi, della formazione delle leghe bracciantili, delle casse di
resistenza e solidarietà, ci ricorda che, di fronte ad una classe frantumata,
che stenta a riconoscere se stessa, occorre ricostruire, con pazienza, perfino
le componenti rituali dello stare insieme. Penso alle “case del popolo”
contemporanee, alle “camere del lavoro territoriali”, alle pratiche autogestite
.Credo che perfino l’esperienza “comunitaria” di Sanders (il Vermont contro
Wall Street) e l’esperienza antiblairiana di Corbyn alludano a tentativi di
ricercare purchessia una rappresentanza per lo meno antiliberista. Del resto,
un Marx dimenticato scriveva che la molteplicità è “l’eterna produzione di
differenze”, ricostruzione dell’”individuo sociale”.
Non sto illustrando,
quindi, una deriva meramente movimentista; tutt’altro; il tema è la richiesta
di una forma “altra” di espressione della società politica, laboratorio di
forme nuove di democrazia organizzata che nascano dalle sperimentazioni
sociali. Pino Ferraris, che ho amato molto, in un convegno a Roma poche
settimane prima della morte ci diceva: “mettere in luce il volto sociale della
politica è tanto più urgente in quanto, in tutta Europa, si sta realizzando
quello che Katz chiama il salto da uno Stato di partiti ad un sistema
cartellizzato di partiti di Stato”. Occorre proporre a movimenti, associazioni,
soggetti politici, un sistema di “autonomie coalizzate”; un fecondo ossimoro.
Reciprocità, equivalenza, lavoro comune che confluiscono in una sintesi
possibile. Questo significa, come presupposto, rinnovamento totale dei gruppi
dirigenti, divieto di cumulo di incarichi, rotazioni, incarichi come “funzioni”
e non “carriera”, non segretari ma portavoci (una donna, un uomo). Occorre
osare sperimentare, senza liturgie conservatrici. Non sto parlando di
“eresie”(che ,peraltro, amo). Sto parlando della necessità di una rilettura
seria delle stesse vicende storiche, spesso drammatiche, dell’intero movimento
operaio. Chi ricorda, oggi, che la “carta di Quaregnon”, che fondava
l’organizzazione socialista sul federalismo orizzontale sul sindacalismo
territoriale, sull’autogestione fu sconfitta, nel corso della dialettica
interna al movimento comunista internazionale, dal “programma di Erfurt”, che
giudico il manifesto del socialismo statalista di stampo teutonico? E la Comune
di Parigi non ha, ancora oggi ,nulla da dirci? E la criticità attenta e dolente
di Rosa Luxemburg, nei suoi scritti a Lenin, su regole e garanzie democratiche
(non vi è socialismo senza democrazia)?
Tutte le esperienze (pur
tra loro così diverse) della Sinistra Europea sono, per noi, che siamo più
indietro, elemento di riflessione. Personalmente ritengo che quella più
interessante, nel suo complesso divenire, per quello che ci può insegnare, sia
Barcelona en comù, per la sua composizione plurale, la ricerca di una
soggettività che vada oltre i partiti pur tenendoli dentro, il ruolo di
movimenti (come quelli del diritto all’abitare, da cui proviene la stessa Ada
Colau), il rapporto tra soggetto e inedita rappresentanza istituzionale. Così
come andrebbero analizzati i “fronti ampi” latinoamericani anche per il
tentativo di una dialettica tra marxismo/indigenismo/bolivarismo. Abbiamo bisogno,
insomma, nell’immediato, di forti presidi unitari, in cui le differenze
convivano producendo una comune visione del mondo. Vi è un secondo ordine di
riflessioni, collegato. Mimmo Porcaro descrive il rapporto tra quello che
chiama il “partito formale” e la costruzione del “partito reale”; cioè della
rete di relazione tra partiti, corpi sociali intermedi istituzioni di
movimento. Il partito non può agire, oggi, come soggetto totalizzante.
assistiamo al protagonismo di soggetti differenziati. Una rete di relazioni
stabili e un “patto politico” tra le diverse soggettività che si misurano
autonomamente ,ma collegate, sul terreno dell’alternativa. Ne consegue,
ovviamente, anche una profonda mutazione della militanza, una propensione a
calarsi maggiormente nella pluralità delle forme in cui si esercita l’azione
politica, a vivere un distacco critico e creativo rispetto alla
centralizzazione.
Processi decisionali
realmente partecipati, che fondano i luoghi di una costruzione policentrica e
plurale, prospettiva di una società futura conflittuale, liberata , organizzata.
Anche perché, ci ricorda Porcaro, il soggetto lotta contro un modo di
produzione del capitale che è, insieme, sempre più accentrato nel comando e
sempre più flessibile nell’articolazione produttiva sul territorio. E’ tutto il
territorio che dal capitale viene messo al lavoro. La militanza politica è
espressione di una creatività che è interna ma anche esterna alle strutture di
partito. Favilli usa argutamente la categoria di “comunismo fuori dal comunismo”.
Perché esiste, nelle pratiche sociali, un comunismo diffuso nelle radicalità
delle critiche e delle pratiche dell’obiettivo che può convivere , in positiva
dialettica, con il soggetto politico anticapitalista. Le forme politiche non
sono in definitiva uno stereotipo, un assoluto. Anche perché sappiamo (ed è
anche un auspicio) che, realizzando il suo programma rivoluzionario, il partito
comunista realizza anche la propria fine. Liguori ci ricorda il Gramsci dei
Quaderni(Q.13,I 1561): “poiché ogni partito non è che una nomenclatura di
classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare la divisione
in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più perché
non esistono classi e, quindi, loro espressioni”. E’ proprio qui in Gramsci che
troviamo la bella metafora del direttore d’orchestra: “una coscienza collettiva
e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo che la molteplicità si è
unificata attraverso l’attrito dei singoli; nè si può dire che il silenzio non
sia molteplicità. Un’orchestra che fa le prove, ogni strumento per conto suo,
dà l’impressione della più orribile cacofonia; eppure queste prove sono la
condizione perché, poi, l’orchestra viva come un solo strumento”. Questa è la
sfida: dalla cacofonia alla più piena armonia.
Questa è la sintesi della
relazione al convegno “Sinistra, in Europa la fanno plurale” tenutosi a Roma
sabato 13 febbraio 2016
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