L’attualità del comunismo
di Paolo
Ferrero
Pubblichiamo
le conclusioni del convegno La nostra storia e l’attualità del comunismo,
tenutosi a Livorno lo scorso 21 gennaio in occasione dell’anniversario della
fondazione del PCI.
Oggi
celebriamo il 95 anniversario della nascita del Partito Comunista in Italia. Lo
facciamo nella consapevolezza che gli uomini e le donne, i compagni e le
compagne che 95 anni fa fondavano il Partito Comunista avevano bisogni e
aspettative simili alle nostre. Bisogni ed aspettative di conquistare una
libertà diversa e superiore a quella propria della società borghese, quella
libertà che chiamiamo socialismo.
Noi siamo
parte di quella storia e la vogliamo proseguire perché il superamento del
capitalismo è il nostro obiettivo. Per questa ragione di fondo la discussione
sullo scioglimento di Rifondazione Comunista è per noi priva di fondamento: non
siamo atomi sociali dispersi o politicanti in cerca di collocazione. Siamo
compagni e compagne che oggi, qui ed ora, si pongono l’obiettivo di proseguire
la lotta per la libertà e la giustizia, la lotta per il socialismo.
Non a caso
l’atto di nascita del nostro partito si fonda sulla volontà di capire e
rispondere alla sconfitta del ciclo di lotte degli anni ’70 e al fallimento del
socialismo reale. E’ questa ambizione che noi chiamiamo “rifondazione
comunista” – che noi proponiamo a tutte e tutti i comunisti come il terreno
dell’unità – che oggi porta a misurarci con la crisi del capitale e con la
necessità di costruire una alternativa di società. La natura della crisi che
stiamo attraversando, pone in discussione i fondamenti del sistema e
l’alternativa – lungi da essere già data – occorre imparare ad elaborarla
all’interno della lotta per la modifica dei rapporti di produzione. Il tema del
comunismo torna così ad essere un tema attuale proprio dentro la crisi del
capitale.
Il nostro
impegno per costruire una soggettività politica della sinistra, per proporre
una alternativa politica al neoliberismo, non cancella quindi la necessità
storica di operare per la rifondazione comunista. Per questo vi è la necessità
del Partito della Rifondazione Comunista e nel contempo della nascita del
processo costituente di un soggetto unitario della sinistra antiliberista.
Perché oggi la crisi ripropone l’attualità del comunismo e parallelamente ci
chiede di dar vita ad un vero processo costituente di una sinistra unitaria e
plurale che coinvolga tutti e tutte coloro che vogliono lottare contro il
neoliberismo.
Una
battaglia sul significato della parola comunismo
Sappiamo
bene che la prospettiva del comunismo è soggetta in questi anni ad un forte
attacco e ad un forte logoramento. Ma non intendiamo adagiarci
nell’accettazione del significato che la parola comunismo ha assunto nella vulgata
corrente. Vogliamo fare una battaglia politica e culturale sul significato
della parola comunismo, appunto perché crediamo che in quella prospettiva sia
racchiusa la soluzione dei problemi che hanno investito la società. Nel corso degli anni, molti nostri compagni
di un tempo hanno scelto di rinunciare a quelle che hanno definito come
illusioni. Ma noi sappiamo che l’illusione è la loro: quella di pensare di
poter affrontare i problemi sbarazzandosi di un passato gravido di nuovi
problemi.
Vogliamo fare
una battaglia politica sul significato della parola comunismo innanzitutto nei
confronti dell’ideologia dominante che postula la fine della storia e
l’insuperabilità del capitalismo, come se fosse uno stato di natura. Questi
avversari di classe da un lato relegano il comunismo in un passato remoto e
dall’altra lo descrivono come una aberrazione che ha prodotto solo disastri. I
nostri avversari hanno condotto – e conducono – una campagna ideologica
violenta e pervasiva dicendo che il comunismo è un ideale barbarico ed
antidemocratico. Questa campagna ha avuto una grande efficacia, in particolare
in Italia dove larga parte dei dirigenti comunisti ha cambiato casacca ed è
diventato liberale ed anticomunista. Contro questa vulgata diffusa a piene mani
dai media, occorre fare una battaglia sul significato della parola comunista.
Vi è chi sostiene che questa battaglia sia troppo difficile, troppo impervia e
quindi propone un camuffamento, un abbandono del nome per mantenere la
sostanza. Penso si tratti di una proposta completamente sbagliata: se lasciamo
all’avversario di classe il monopolio della definizione della parola comunismo
– che diventa così il male assoluto ed equiparato al nazismo - ogni battaglia sociale e politica per
l’eguaglianza e la libertà, potrà essere bollata come l’anticamera del male
assoluto. Se permettiamo che l’avversario di classe colonizzi integralmente
l’universo simbolico in cui ci muoviamo, sarà in ogni momento in grado di
decretare se le nostre azioni sono lecite moralmente e politicamente. Se
lasciamo passare l’idea che il comunismo sia il male assoluto, non sono solo i
comunisti e le comuniste ad aver perso, ma è l’idea della gerarchia e della
diseguaglianza come forma immutabile del vivere civile che si afferma. La
parola comunismo fa paura perché rappresenta il tentativo delle classi oppresse
di rovesciare i rapporti sociali: non solo di lamentarsi ma di costruire una
società diversa. Questo tentativo non lo possiamo lasciare infangare e
distruggere dai nostri avversari.
Ovviamente
vi è anche un altro versante della battaglia sul significato della parola
comunismo, nei confronti di coloro che si dicono comunisti e sostengono che il
comunismo è quello della Corea del Nord. Questi supercomunisti sono utilissimi
per la propaganda anticomunista perché confermano i luoghi comuni, dipingendo
il comunismo come una caserma. Contro l’idea del comunismo da caserma serve una
battaglia politico culturale per affermare un comunismo fondato sulla libertà,
come quello che ci propone Marx.
La rifondazione:
Capire gli errori per non ripeterli
Sappiamo
bene che nella storia del movimento comunista, accanto alla costruzione di
grandi movimenti per la libertà e la giustizia, accanto a grandi successi –
pensiamo solo alla lotta partigiana e alla conquista della Costituzione
repubblicana – vi sono stati errori ed orrori.
Noi siamo qui oggi a commemorare la nascita del Partito comunista perché
non vogliamo dimenticare nulla della nostra storia. Vogliamo valorizzare le
cose buone che abbiamo fatto e imparare dai nostri errori, non per fustigarci,
ma per non ripeterli ed essere più efficaci nella lotta. Non solo la storia dei
comunisti ma l’intera storia dell’umanità procede per errori e attraverso il
riconoscimento dei propri errori. Tutte le grandi scoperte scientifiche
dell’umanità sono avvenute dopo innumerevoli errori. Noi dobbiamo quindi
procedere con un metodo scientifico: riconoscere i nostri errori per capirli e
superarli. Il tema della libertà, come tema centrale per una trasformazione
socialista, costituisce indubbiamente una delle acquisizioni che abbiamo
imparato dall’analisi critica della nostra storia. Su questa strada abbiamo
molto cammino da fare, come cercherò di dire dopo.
Il filo
rosso del protagonismo di massa
Il contesto
in cui operiamo è un contesto di poche speranze e molte delusioni. E’ un
contesto in cui domina il senso di impotenza e pullulano gli uomini della
provvidenza che si candidano a salvare il paese. Noi pensiamo che la salvezza
del paese non possa venire attraverso un affidamento al fato ma solamente
attraverso un grande moto di popolo che, consapevole della propria forza e dei
propri obiettivi, sia in grado di prendere in mano il proprio futuro. Voglio
sottolineare come nella storia d’Italia i momenti della delusione e della delega
si sono sempre alternati ai momenti del riscatto e del protagonismo sociale.
Quando 95 anni fa i nostri compagni e le nostre compagne fondavano il Partito
Comunista, rappresentavano una parte di quel grande movimento operaio e
contadino che aveva dato vita al biennio rosso, ai Consigli di Fabbrica.
Sappiamo bene come in pochissimi anni la reazione fascista spazzo via quel
movimento e le sue lotte, ponendo nelle mani dell’uomo della provvidenza i
destini del paese. Furono anni non solo di repressione e di abolizione della
democrazia. Furono anni di delega e di passivizzazione sociale. Ma nel ’43 vi
fu il movimento partigiano, che divenne movimento di popolo, di un popolo che
non voleva più delegare. Sull’onda di quel movimento di popolo nacque la Costituzione
più avanzata dei paesi occidentali e poi – nonostante la repressione poliziesca
e padronale – le lotte bracciantili e operaie impedirono la normalizzazione.
Nel biennio 68/69 le lotte studentesche ed operaie aprirono un’altra grande
stagione di protagonismo sociale che trasformò radicalmente il paese. La
sconfitta di quel movimento – anche in virtù degli errori e delle insufficienze
dei comunisti – ha aperto la lunga stagione della restaurazione, del
disorientamento e della passivizzazione in cui viviamo immersi. Compito nostro
è innanzitutto capire le ragioni della sconfitta sapendo che questa stagione
non è eterna: il potere appare inattaccabile ma in realtà cammina sul ghiaccio
sottile, non è in grado di risolvere nessuno dei grandi problemi che vive il
popolo italiano. Dobbiamo avere un senso storico, del procedere della storia e
di possibilità di cambiare il suo corso. La storia non si cambia
arbitrariamente ma non è già scritta. Come ci spiegava Marx, la storia è storia
di lotta di classe, della capacità di lottare e di trasformare la società in
corrispondenza delle contraddizioni emerse.
Compito
nostro è quindi analizzare gli errori e le sconfitte senza restare avviluppati
nella ragnatela della disperazione ma avendo un senso storico della nostra
lotta. Dobbiamo analizzare le contraddizioni, scorgere gli elementi di
protagonismo sociale presenti in forma embrionale nei conflitti e nelle mille
forme di resistenza, contribuire al loro sviluppo e all’individuazione di un
percorso di ripresa del protagonismo sociale e di trasformazione del paese.
Dobbiamo situare nel tempo la possibilità del sovvertimento, la possibilità
della trasformazione. Il mondo non è sempre stato così e non è obbligato a
rimanere così.
Il nostro
impegno internazionalista
Il nostro
senso storico riguarda il tempo ma anche lo spazio. Mentre facciamo questa
battaglia nel nostro paese non vogliamo dimenticare i compagni e le compagne
che in altre parti del mondo si battono in condizioni assai più difficili delle
nostre. Il pensiero va ai compagni e alle compagne Ucraine, dove un governo
nazistoide nato dopo un colpo di stato fomentato da USA e Unione Europea, ha
messo al bando il partito comunista. Il nostro pensiero va ai compagni e alle
compagne del PKK – tutt’ora considerato dai paesi occidentali alla stregua di
una organizzazione terroristica – e oggetto di una feroce repressione da parte
del governo turco. Il nostro non è solo un pensiero ma un impegno militante ed
internazionalista: Rifondazione Comunista deve operare per squarciare il velo
della disinformazione che regna sovrana e per costruire una concreta campagna
di solidarietà con le compagne ed i compagni Kurdi e Ucraini.
L’esaurimento
della spinta propulsiva del capitalismo
Il
ragionamento che ho svolto sin qui potrebbe essere etichettato come un
ragionamento di tipo morale: gli eredi di una grande storia che ribadiscono la
loro fedeltà agli ideali e la loro internità a quella storia. Il rilievo è
corretto e quindi è bene affrontare di petto il problema di come il nostro essere
comunisti non sia un retaggio del passato ma abbia un valor politico oggi, qui
ed ora.
Il nostro
punto di partenza è dato dalla comprensione del perché, una volta conquistata
una limitata egemonia sociale tra la metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni
’70, non siamo riusciti a consolidarla.
Del perché la forza dei nostri avversari è tornata a crescere,
risospingendo indietro la società. Dagli anni ’90 in avanti ci hanno detto che
il capitalismo era perfettamente in grado di risolvere le sue contraddizioni e
che avrebbe portato il benessere a tutta la popolazione mondiale. Su questa
base hanno sostenuto che il capitalismo rappresentasse la “fine della storia” e
quindi che il comunismo era un ferrovecchio da gettare. Vediamolo questo
capitalismo. Il capitalismo neoliberista è entrato in una crisi sistemica da
cui non sa uscire. Nel ventennio cominciato negli anni ’90 del secolo scorso,
in cui il capitalismo ha fatto quel che voleva su scala mondiale avendo
sconfitto tutti i suoi nemici, nel ventennio in cui l’ideologia neoliberista è
diventata l’ideologia dominante su scala mondiale, dalla Cina agli Stati Uniti,
si sono poste le basi per una crisi rovinosa priva si terra e non vi sono state
calamità o disastri naturali tali da produrre scarsità. Se entriamo in un
supermercato vediamo come sia pieno di merci. La crisi che viviamo non è frutto
si scarsità, come invece ci viene raccontato ogni giorno. La crisi è frutto di
una grande sovrapproduzione di merci a cui non è possibile trovare uno sbocco
che remuneri il capitale. Da qui il gonfiarsi della speculazione in cui vengono
investiti i capitali eccedenti e che producono in continuazione bolle destinate
ad esplodere. Da qui il tentativo del capitale di privatizzare ogni aspetto del
vivere civile – a partire dai beni comuni – per cercare di estrarre plusvalore
anche in quei settori che il welfare aveva sottratto alle logiche di mercato.
Da qui uno sfruttamento della natura assurdo e distruttivo che mette in
discussione le condizioni di vita sul pianeta. E’ proprio il caso di dire che
si è esaurita la spinta propulsiva del capitalismo.
Socialismo o
barbarie
In questo
modo, il capitalismo concentra la ricchezza e parallelamente distrugge
capitale, cercando di recuperare i margini di profitto che desidera. Questo lo
fa attraverso una produzione voluta ed artificiale della scarsità. La crisi,
come ci insegnavano Marx e poi Lenin e Rosa Luxemburg, è una enorme distruzione
di capitale e le politiche di austerità non sono altro che politiche
finalizzate a creare artificialmente una situazione di scarsità che distrugge
capitale, perché non sa più come valorizzarlo. La guerra – è bene averlo
presente – è il modo più rapido per distruggere capitale e porre le condizioni
per una nuova fase di sviluppo. E’ stato così dopo la crisi del 1929, vi sono
tutti i presupposti per cui torni ad esserlo oggi. Così come la guerra tra i
poveri e il razzismo sono il modo più semplice per aumentare lo sfruttamento e
ridurre il valore del lavoro. La crisi non distrugge solo capitale ma le condizioni
di vita dell’umanità oltre che la natura. Questa crisi mostra come il
capitalismo, dopo aver prodotto una enorme ricchezza, nel tentativo di
riprodurre un alto saggio del profitto, abbia imboccato la strada della
barbarie. In altri termini, il capitalismo non è in grado di riprodursi
nell’abbondanza: la caduta tendenziale del saggio medio del profitto glielo
impedisce. La crisi che viviamo è quindi la crisi del capitale, è la crisi di
un modello di sviluppo basato sul profitto e sullo sfruttamento del lavoro e
della natura. Ma questa crisi ha
coinvolto pure noi, perché, pur volendolo, non abbiamo sin qui saputo elaborare
alternativa che sapessero imporsi come socialmente valide.
Oggi il tema
che è posto concretamente all’umanità è l’impossibilità del capitalismo di
riprodursi allargando il benessere sociale e rispettando la natura. Il
capitalismo può riprodursi solamente distruggendo capitale, distruggendo
l’ambiente e, nel suo tentativo non riuscito di riprodursi, fa regredire le
condizioni di vita di miliardi di persone. Il disastro sociale si somma non a
caso ai disastri ambientali e alle guerre. Oggi il tema posto all’umanità è che
il capitalismo per salvaguardare se stesso sta portando l’umanità alla rovina,
sta producendo la barbarie. Lo sviluppo capitalistico che ora è arrivato ad un
punto in cui, per dirla in termini semplici, ha dato tutto quello che poteva
dare, cioè procede distruggendo le stesse condizioni su cui poggia.
Cooperare
non concorrere
Se è il
meccanismo di accumulazione capitalistico a distruggere la ricchezza prodotta e
a portare alla barbarie si tratta di chiedersi se sia possibile una
alternativa. A me pare che questa alternativa sia – forse per la prima volta
nella storia dell’umanità – piuttosto visibile anche se di difficile
realizzazione.
Se da questa
crisi non se ne può uscire con le politiche neoliberiste è del tutto evidente
che non è possibile uscirne nemmeno rilanciando semplicemente le politiche di
sviluppo: esistono dei limiti ambientali e della domanda che non permettono la
ripresa di uno sviluppo quantitativo che ripeta quanto è accaduto nel secondo
dopoguerra.
L’unica
uscita dalla crisi sta nella radicale redistribuzione del lavoro, nella
socializzazione della ricchezza, nella costruzione di un potere di autogoverno
diffuso contrapposto alla dittatura delle multinazionali, nella riconversione
ambientale e sociale dell’economia e delle produzioni. Occorre cioè superare i vincolo del profitto
e della rendita come principi ordinatori delle attività umane e delle relazioni
sociali. Si potrebbe passare molto tempo a descrivere questi semplici obiettivi
ma il punto fondamentale che voglio sottolineare è che per la prima volta nella
sua storia, l’umanità non deve più confrontarsi principalmente con il tema
della scarsità ma piuttosto con il tema di una gestione equilibrata della
ricchezza. Si tratta quindi di ridistribuire il lavoro perché lo sviluppo della
scienza e della tecnica hanno permesso un così grande aumento della produttività
tale da rendere la riproduzione sociale possibile con una netta riduzione delle
ore lavorate pro capite. Si tratta di socializzare la ricchezza superando una
condizione folle in cui 62 persone possiedono una ricchezza pari a quella di
3,5 miliardi di persone. Si tratta di costruire forme democratiche di
autogoverno superando lo svuotamento della democrazia rappresentativa ridotta
ad un impotente teatrino. Si tratta di praticare una riconversione ambientale e
sociale dell’economia e delle produzioni perché l’unica cosa scarsa è la Terra:
ne abbiamo una sola. Le tecnologie esistenti, liberate dal vincolo del profitto
sono in grado di permettere una riconversione degli stili di vita occidentali e
un miglioramento delle condizioni di vita degli altri paesi in forme rispettose
dell’ambiente. Torna qui il tema della cooperazione, anche a livello
internazionale. E’ infatti del tutto evidente che la scarsità di materie prime,
la scarsità di terre coltivabili, la scarsità di acqua potabile, non può essere
risolto attraverso la concorrenza: questa porta fisiologicamente alla guerra.
Solo la cooperazione può permettere di gestire le risorse del pianeta terra in
forme compatibili con lo sviluppo della civiltà e la ricostruzione
dell’equilibrio naturale. L’unica via di uscita dalla crisi è il superamento
del capitalismo in senso egualitario, libertario, cooperativo e rispettoso
dell’ambiente. Questo è quello che noi consideriamo il comunismo del quale
esprimiamo il bisogno. Lo chiamiamo comunismo – sottolineando con questa parola
la necessità del conflitto sociale, anche perché se vi sono i presupposti per
una transizione al di fuori del capitalismo, è del tutto evidente che forze
potentissime sono lì ad impedirlo. Il superamento del capitalismo non può
avvenire per volontà dello spirito santo o perché il capitalismo si auto
trasforma. Visto che è in discussione il nocciolo duro del profitto – e quindi
del privilegio, della gerarchia e del potere – la transizione al di fuori del
capitalismo può avvenire unicamente attraverso una battaglia politica, sociale
e culturale, attraverso la lotta per il socialismo che richiede anche una
nostra autotrasformazione. Qui non si tratta di passare dalla General Motors a
Steve Jobs: si tratta di superare la logica della massimizzazione del profitto
che presiedono al funzionamento della General Motors come della Apple. A chi
obietta che ci poniamo degli obiettivi troppo ambiziosi vista la nostra
debolezza replico che occorre imparare da quelle poche migliaia di comunisti e
comuniste che animarono la lotta clandestina sotto il regime fascista. Fu un
lavoro politico difficilissimo, che normalmente portava alla galera ma che
contribuì in modo decisivo alla costruzione del patrimonio di credibilità del
Partito Comunista e tenne aperta una contraddizione. Così come occorre imparare
un po’ da quei giovani che salirono in montagna nel 1943: la forza
dell’esercito tedesco in Italia non era nemmeno paragonabile alle poche armi di
quei valorosi. Eppure in montagna ci salirono e dettero vita ad una lotta
partigiana che cambiò letteralmente la storia del paese. Io penso che oggi
siamo in una situazione che non è chiusa ma contraddittoria: il potere sembra
invincibile ma cammina sul ghiaccio sottile e noi dobbiamo avere una visione e
obiettivi che permettano di favorire una ripresa del conflitto che superi la
situazione attuale.
L’uscita
dalla preistoria del comunismo
Anche chi
convenisse su una parte almeno delle riflessioni sopra esposte potrebbe però
obiettare che il comunismo è la strada sbagliata su cui incamminarsi, che ha
già fallito una volta per cui occorre cambiare strada. A riguardo ho una tesi
molto netta: penso che i tentativi di superare il capitalismo che sono avvenuti
nel secolo scorso siano stati in realtà condizionati pesantemente dal fatto di
nascere in una situazione ancora immatura, in una situazione di scarsità in cui
non esistevano ancora compiutamente i presupposti di una transizione dal
capitalismo al socialismo. Marx spiega a lungo come il capitale ponga i
presupposti del suo superamento e a me pare che oggi questi presupposti siano
pienamente maturi.
Penso che
questi presupposti esistano oggi in virtù dell’enorme sviluppo prodotto dal
capitalismo e quindi che il tempo dell’attualità del comunismo sia oggi molto
più di ieri. Ritengo inoltre che il
comunismo non sia oggi solo una possibilità concreta ma una necessità per
l’umanità e per il futuro del pianeta. Il rischio che ci troviamo dinnanzi è
infatti quello della barbarie prodotta dall’incapacità /impossibilità del
capitalismo di uscire dalla sua crisi e penso che l’unica strada positiva di
uscita da questa crisi sia data dal socialismo: socialismo o barbarie è oggi il
bivio che l’umanità ha dinnanzi a se. Penso quindi, in altri termini, che sia
finita la preistoria del comunismo e che proprio lo sviluppo del capitalismo e
la sua crisi abbiano posto concretamente la possibilità e la necessità del
comunismo.
Mi piace
ricordare qui una nota frase che Marx scrive nell’Ideologia tedesca e che ogni
anno riportiamo sulla tessera di Rifondazione Comunista. Scrive Marx: “Il
comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un
ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presente.” In genere la citazione finisce
qui ma io penso che sia bene riportare anche la frase successiva con cui Marx
porta a compimento il suo pensiero: “Le condizioni di questo movimento
risultano dal presupposto ora esistente”. Io penso che il “presupposto ora
esistente” sia proprio la globalizzazione capitalistica, l’enorme sviluppo
capitalistico in cui è scoppiata la crisi da cui il capitale non è in grado di
uscire. Utilizzerò ancora una frase di Marx, sempre tratta dall’Ideologia
tedesca per descrivere questa situazione: “Essa produsse per la prima volta la
storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione
civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi
bisogni, e in quanto tale annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole
nazioni”. Questa straordinaria frase di Marx che 150 anni fa descrive
esattamente la situazione di interdipendenza determinata dalla globalizzazione
capitalistica e ci dice che questa nuova situazione rappresenta la nascita
della “storia mondiale”.
Proprio
dentro questa nascita della storia mondiale, dentro l’enorme ricchezza prodotta
dal capitale e dentro la crisi della globalizzazione neoliberista – che segnala
l’incapacità/impossibilità del capitale di mediare in termini positivi questa
ricchezza – si presenta il tema del comunismo. Si presenta non come retaggio
del passato ma come unica possibilità di uscita positiva dalla crisi, come
unica alternativa alla barbarie a cui da luogo il capitalismo neoliberista nel
tentativo di riprodursi e riprodurre il rapporto di valore.
Lo sviluppo
della libera individualità
Abbiamo
detto che il comunismo, il nodo centrale del comunismo, è la sostituzione della
concorrenza con la cooperazione. La concorrenza è l’anticamera della guerra e
solo la cooperazione può essere la base su cui gestire la ricchezza sociale e
permettere quindi il libero sviluppo dell’individuo, degli uomini e delle
donne. Riteniamo infatti che ogni contrapposizione tra diritti collettivi e
diritti individuali sia infondata: la possibilità dello sviluppo della persona
è intrecciata con la soluzione dei problemi materiali e sociali di fondo. Noi
siamo per il libero sviluppo della persona, di tutte le persone, per questo
riteniamo necessario superare il capitalismo in una direzione egualitaria: per
fornire a tutti e tutte la base materiale su cui poter sviluppare liberamente
la propria personalità. Su questa base riteniamo una pura mistificazione
reazionaria ogni contrapposizione tra diritti sociali e diritti civili. Quando
sento qualcuno che dice che non bisogna riconoscere le unioni civili perché
abbiamo una alta disoccupazione mi chiedo: ma se non si fa una legge sulle
unioni civili, quanti disoccupati vanno a lavorare? Quanti posti di lavoro si
creano non permettendo alle persone di uno stesso sesso di vedersi riconosciuto
il proprio legame affettivo? Essendo evidente l’assurdità del quesito ritengo
che chiunque contrapponga i diritti sociali e civili – o dica che i comunisti
non si devono occupare dei diritti civili – sia semplicemente in malafede o con
la lingua più veloce del cervello. Ricordo anche a tutti i compagni e le
compagne che con la rivoluzione d’ottobre, le donne in Russia ebbero il diritto
di voto, vennero legalizzati il divorzio e l’aborto e furono tolti dal codice
penale i reati connessi all’omosessualità. Fu sotto Stalin che venne ristretto
il diritto al divorzio e che – nel 1934 – l’omosessualità tornò ad essere un
reato. La lotta allo stalinismo passa anche su questo terreno.
Il tema
della persona, del libero sviluppo dell’individuo necessita quindi di essere
affrontato in termini assai più approfonditi. Non solo perché nella nostra
storia questo è stato un aspetto misconosciuto, quando non avversato, ma anche
perché sul tema dell’individuo si concentrano le politiche neoliberiste.
L’assolutizzazione
dell’individualismo predatorio, che si basa sulla forma privata della
proprietà, è infatti il punto fondamentale su cui si basa il neoliberismo.
Nella visione neoliberista il compito dello stato è quello di garantire il
massimo della concorrenza e la libertà degli investimenti (come il TTIP) e in
questo quadro il ruolo dell’individuo è quello di competere con gli altri al
fine di prevalere. Non a caso, ponendosi l’obiettivo di rompere ogni
solidarietà di classe, le politiche neoliberiste considerano l’individuo alla
stregua di una impresa nella concorrenza. Compito dell’individuo deve essere di
accrescere il proprio patrimonio conoscitivo (si comincia dalla scuola e si va
avanti) e valorizzare il proprio patrimonio nel mercato concorrendo contro le
altre persone per avere il lavoro e fare carriera. Il neoliberismo attraverso
la crisi e le politiche di austerità sfocia in una situazione di scarsità che
utilizza per mettere gli individui l’uno contro l’altro. La vulgata è: la
coperta è corta è meglio che restino fuori i piedi di qualcun altro”. Alla base
del neoliberismo vi è quindi una visione antropologica che vuole costruire un
individuo asociale, solo proprietario privato, dedito al perseguimento del
proprio godimento immediato, mettendo i piedi in testa a chiunque. E’ la
classica visione della destra che considera l’individuo un “lupo che cammina su
due zampe” come presupposto di una società gerarchica considerata come il vero
ordine naturale delle cose. Infatti chi per qualche motivo non riesce, è
considerato uno “sfigato”, cioè un debole che non è stato capace di prevalere.
La nozione di sfruttamento scompare con la nozione di classe facendo spazio
alla logica della massima concorrenza. E’ del tutto evidente che questa visione
dell’individuo come atomo isolato in concorrenza con gli altri non è solo alla
base delle disumanizzazione determinata dalla concorrenza ma è l’anticamera del
razzismo e della logica della guerra. Il neoliberismo porta l’antitesi
“amico-nemico” dentro il corpo sociale e ne determina la sua regressione
barbarica. Come ci dice Marx: “I singoli individui formano una classe solo in
quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe; per il resto
essi stessi si ritrovano l’uno di contro all’altro come nemici, nella
concorrenza.“
E’ evidente
che l’antropologia neoliberista si nutre della sconfitta della classe
lavoratrice e alimenta il tentativo di far scomparire anche la memoria dello
scontro di classe.
Conflitto di
classe contro guerra e razzismo
Al contrario
noi comunisti e comuniste operiamo per estendere e rafforzare lo scontro di
classe che costituisce un elemento fondamentale per poter permettere lo
sviluppo di un individuo che, spingendosi al di là dei rapporti privati, impara
a costruire relazioni di cooperazione su una base superiore rispetto a quelli
borghesi. A questo riguardo è bene soffermarsi un attimo sulla differenza tra
conflitto di classe e conflitto nella concorrenza, su base nazionale o di tipo
razzista. Il conflitto nella concorrenza o su base nazionale o di tipo razzista
è finalizzato alla sconfitta del nemico per poterlo assoggettare o distruggere.
La pulizia etnica e lo stupro etnico costituiscono l’esito ultimo di questo
tipo di conflitto. Si tratta cioè di un conflitto che non produce uno sviluppo
dell’umanità ma una sua tendenziale regressione.
Al contrario
il conflitto di classe non è finalizzato all’uccisione dei padroni ma alla
messa in discussione dei rapporti sociali di produzione, cioè al superamento
delle classi. Il conflitto di cui noi siamo portatori è un conflitto che
mettendo in discussione i rapporti sociali che producono la schiavitù apre la
porta alla liberazione di tutti e tutte.
La nostra
visione antropologica si basa quindi sull’estensione del conflitto di classe e
alla produzione di un individuo sociale in grado di costruire relazioni di
cooperazione tra i lavoratori e i popoli. Il superamento delle classi è quindi
finalizzato a permettere la cooperazione sociale e ad ogni singolo individuo –
liberato dal vincolo materiale dello sfruttamento e della concorrenza, e dai
limiti del proprio agire privato – l’espressione e la costruzione della propria
libera individualità.
Come ci ha
ricordato anche in questa occasione Lidia Menapace l’individuo non è
declinabile in un modello unico perché esistono i maschi e le femmine. Concordo
con questa sottolineatura e quindi con la necessità di far attraversare e
ridefinire la nostra elaborazione a partire dal nodo della differenza. Non a caso la lotta al patriarcato l’abbiamo
inserita all’interno dello statuto di Rifondazione Comunista. Dobbiamo essere
assolutamente consapevoli che il maschilismo non è automaticamente abolito
dalla lotta di classe. La lotta per il superamento del capitalismo e la lotta
per il superamento del patriarcato sono due facce della stessa medaglia, due
facce necessarie della lotta per la libertà. La lotta al patriarcato non è un
lusso ma un elemento fondativo della nostra lotta per il comunismo che è una
lotta per superare tutte le diseguaglianze e le discriminazioni. Riprendendo il
ragionamento di Lidia Menapace, credo per certi versi che occorra addirittura
andare oltre. Io penso che non si possa ridurre alcun individuo – maschio o
femmina che sia – ad un aspetto solo della sua persona. La riduzione ad un solo
aspetto di noi è alla base del razzismo: quello è nero, quello è islamico ci
dicono i razzisti di casa nostra. La nostra idea di antropologia connette la
questione di classe con la questione di genere e punta a costruire rapporti
sociali che permettano alle persone di esprimere la propria varietà di
sfaccettature che compongono l’irripetibile ricchezza di ogni essere umano. Io
sono un maschio di 55 anni, comunista, valdese a cui piace andare in montagna e
suonare. Sono tante cose come ognuno di voi. Così come un immigrato non è solo
un uomo con la pelle di un altro colore ma una persona con la sua storia, le
sue passioni, le sue idee, la sua complessità e unicità. E’ del tutto evidente
che la logica della concorrenza o della guerra riduce le nostre identità ad un
aspetto solo al fine di poter identificare i nemici: gli immigrati, i
mussulmani, gli zingari. Le persone scompaiono e vengono ridotte a simboli
nella barbarie che cerca e produce capri espiatori. Noi contrapponiamo la
cooperazione alla competizione perché pensiamo che solo una società retta dalla
cooperazione tra eguali possa permettere il libero sviluppo della personalità
umana nelle sue differenze.
Per questo
noi comunisti e comuniste operiamo per il superamento del sistema capitalistico
e lo facciamo ponendo al centro una antropologia basata sulla cooperazione,
sull’individuo sociale, sul riconoscimento del “noi umani”, contrapposta alla
logica della concorrenza che produce individui disumanizzati in guerra perenne
gli uni contro gli altri.
Per un
soggetto unitario e plurale della sinistra antiliberista
Tutto questo
non siamo oggi in grado di farlo da soli. Per le ragioni sopra espresse abbiamo
la necessità di favorire l’allargamento della partecipazione e di aggregare
forze al fine di sconfiggere le politiche neoliberiste che stanno portando il
mondo nella barbarie.
Per questo
proponiamo di aggregare tutte le forze antiliberiste di sinistra al fine di dar
vita al processo costituente di un soggetto politico unitario e plurale. Un
processo costituente che permetta la partecipazione e il protagonismo di tutti
gli uomini e le donne che ritengono necessario sconfiggere il neoliberismo. Ci
siamo scontrati nelle settimane scorse con il settarismo di SEL e Sinistra
Italiana che hanno scelto la strada di fare un nuovo partito. Una proposta
politica che ha mostrato una determinazione degna di miglior causa nella
richiesta di sciogliere Rifondazione Comunista mentre è assai ambigua sul tema
fondamentale dei rapporti con il PD. Noi pensiamo che occorra fare il
contrario: occorre dar vita ad un soggetto politico che sia chiaramente e
strategicamente alternativo al PD e ai socialisti e che sia costruito in modo
plurale, al fine di aggregare tutte le energia sociali, culturali e politiche
disponibili a operare per una alternativa di sinistra. Vi è chi vede una
contraddizione tra la proposta di rafforzare Rifondazione Comunista e quella di
costruire un soggetto unitario della sinistra antiliberista. Non è così:
dall’America Latina all’Europa le migliori esperienze di sinistra sono nate con
un carattere unitario e plurale, proprio per raccogliere il complesso delle
forze e delle intelligenze nella lotta al liberismo. Proprio il carattere
plurale e democratico è la condizione per porre le basi di una partecipazione politica
di massa, non circoscritta a ristretti circoli militanti. Questa necessità
dell’unità nel pluralismo lo possiamo vedere anche nella parte migliore della
nostra storia. Nel 1943 in nome della necessità e dell’urgenza di sconfiggere
il nazifascismo il PCI contribuì a dar vita al CLN, al Comitato di Liberazione
Nazionale. Oggi noi dobbiamo dar vita ad un soggetto politico che abbia
l’ambizione di costruire un CLN antiliberista.
Così come
all’inizio degli anni ’70, nel vivo di quella grande stagione di lotte operaie
i comunisti seppero stare da protagonisti nella costruzione dell’unità
sindacale e della FLM. Il sindacato unitario fu la cornice in cui poté crescere
il sindacato dei consigli e contribuì in modo fondamentale a quella magnifica
stagione di conquiste e di trasformazioni sociali.
Quando
faccio questi esempi non intendo ovviamente riproporre le forme specifiche in
cui essi si realizzarono: abbiamo detto in tutte le salse che il soggetto
unitario deve basarsi sul principio di una testa un voto, non deve essere una
forma federativa. Voglio però riproporre con forza quell’ispirazione unitaria
che in nome della lotta contro il nemico e per i comuni obiettivi, seppe
costruire grandi stagioni di riscatto e protagonismo sociale.
La nostra
proposta politica di dar vita ad una sinistra unitaria e plurale non si è
quindi esaurita a causa della scelta sbagliata di SEL e Sinistra Italiana. Noi
siamo impegnati affinché questa prospettiva possa realizzarsi e continueremo
nei prossimi mesi a batterci per questo. Riteniamo infatti che il terreno
dell’unità della sinistra antiliberista sia il terreno su cui può realizzarsi
un nuovo protagonismo di massa e una nuova stagione di trasformazione sociale.
Siamo
liberamente ed orgogliosamente comunisti e proprio per questo per l’unità della
sinistra antiliberista.
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