Io sto con
questi pescatori di uomini
di Erri De Luca
Alle 6 di
mattina a 18 miglia dalla costa libica Pietro Catania, capitano della nave
salvataggio Prudence di Medici Senza Frontiere, mi fa vedere sulla carta
nautica tre gommoni segnalati in partenza nella notte dalle spiagge di Sabrata.
Alle 6 di mattina hanno raggiunto le 8 miglia di distanza. Inizio il turno di
avvistamento al binocolo. Il radar di bordo non basta a segnalare
un’imbarcazione bassa, fatta di gomma e di corpi umani. Sull’altro bordo di
prua Matthias Kennes, responsabile di Msf, sorveglia il rimanente pezzo di
orizzonte. Si vedono le luci della costa, l’alba è limpida. Passano le ore
inutilmente.
Veniamo a
sapere che i gommoni sono stati intercettati dalle motovedette libiche e
costrette al rientro. Avevano raggiunto le 15 miglia, perciò fuori dal limite
territoriale delle 12, che sono in terra 22 km. Potevano lasciarli stare. Sono
già condannati a morte se fanno naufragio entro il limite, dove non possiamo
intervenire. Li riportano a terra per chiuderli di nuovo in qualche gabbia: non
tutti. Uno dei gommoni trainati si rovescia. Affogano in novantasette. Quando
si tratta di vite umane, le devo scrivere con le lettere e non con le cifre.
Ventisette invece sono ammesse alla lotteria della salvezza. A bordo della
Prudence era tutto pronto. Restiamo con i pugni chiusi, senza poterli aprire
per raccogliere. Guardo il mare stasera: disteso, pareggiato a tappeto. Non si
può affondare senza onde. Bestemmia al mare è affogare quando è calmo, quando
non esiste alcuna forza di natura avversa, tranne la nostra. Siamo coi pugni
chiusi. Non soffro il maldimare, ho imparato da bambino a stare in equilibrio
sulle onde. Non soffro il maldimare, ma stasera soffro il male, il dolore del
mare, la sua pena d’inghiottire da fermo i naviganti. È creatura vivente il
mare che i Latini chiamarono con affetto Nostrum, perché nessuno potesse dire:
è mio. La nave in cui mi trovo vuole risparmiare al Mediterraneo altre fosse
comuni. Rimaniamo al largo un giorno e un’altra notte di veglia.
Questo è
oggi il trasporto delle vite sul Mediterraneo, da una parte crociere in
girotondo, dall’altra parte zattere alla deriva, affidate all’arbitrio di chi
intasca quattrini sia dai trafficanti che dall’Unione europea. Una pacchia per
loro: perché dovrebbero rinunciare a uno dei contribuenti? Un naufragio qua e
là, l’arresto di qualche gommone a casaccio, così per fingere di rispettare gli
accordi. Gli accordi prevedono i naufragi? Non sia mai detto. Gli accordi
ammettono effetti collaterali, colpa degli irriducibili che vogliono viaggiare
per forza. Proprio così, per forza: vengono prelevati di notte dai recinti, a
scaglioni di centocinquanta è costretti a salire sul gommone. Costretti:
parecchi vorrebbero ritirarsi di fronte al buio e al rischio assurdo. Non
possono. Chi resiste, sale sotto spinta di armi. Uno di questi, recuperato in
un salvataggio precedente, aveva un proiettile nella gamba. I trafficanti li
incalzano, poi affidano bussola a timone a uno del carico. Gli scafisti non ci
sono più. Una delle unità veloci calate dalla Prudence per avvicinamento ai
gommoni, chiede a quello che regge la barra del fuoribordo di spegnere il
motore. Risponde che non lo sa fare. Gli scafisti hanno messo in moto e lui sa
solo reggere la barra. L’unità veloce è costretta all’abbordaggio. Lionel,
operativo di Msf, si fa tenere per i piedi e dalla prua si lancia sul motore
fuoribordo del gommone per spegnerlo. Gli scafisti non esistono più.
Nel porto di
Augusta in Sicilia, dove salgo a bordo della Prudence, c’è un campo di primo
internamento per chi sbarca da navi soccorso. A fianco, grandi gru caricano
rottami di ferro dentro stive dirette a fonderie in Asia. Viaggiano con
documenti in regola pure i chiodi arrugginiti. Gli esseri umani del campo
vicino sono invece carico fuorilegge in attesa di respingimento. Le ultime
procedure introdotte dal nuovo malgoverno cancellano il diritto di appello del
richiedente asilo, in caso di primo rigetto della sua domanda. Tolgono il
diritto di appello: a chi ha perso tutto quello che poteva già perdere. Si
scrivono e si approvano da noi leggi d’inciviltà feroce. Qualche svaporato
nostrano dice che i gommoni partono perché ci sono le navi di soccorso al
largo.
Sono venti
anni che partono zattere a motore imbottite di umanità spaesata. La prima fu
affondata nella Pasqua del ‘97 da una nave militare italiana che aveva l’ordine
d’imporre un abusivo blocco navale in acque internazionali. Veniva
dall’Albania, il suo nome era Kater i Rades. Lo Stato italiano se la cavò con
dei risarcimenti alle famiglie dei circa novanta annegati.
Sono venti
anni che viaggiano sul Mediterraneo zattere a motore senza alcun soccorso. Ora
che finalmente esiste una comunità internazionale di pronto intervento in mare,
sarebbe colpa sua se partono i gommoni. Come dire che esistono le malattie per
colpa delle medicine. Se i delfini venissero in aiuto dei dispersi in mare,
questi svaporati li accuserebbero di complicità coi trafficanti. In verità la
loro fandonia intende accusare i soccorritori d’interrompere il regolare
svolgimento del naufragio. Perché siamo e dobbiamo rimanere contemporanei
incalliti del più lungo e massiccio affogamento in mare della storia umana.
Il giorno
seguente all’alba torniamo a scrutare l’orizzonte dietro le lenti dei binocoli.
Sappiamo che sono partiti di notte da Sabrata. Il mio compagno di cabina,
Firas, di origini siriane, legge su FB messaggi in arabo dove si scambiano
queste notizie. Localizziamo il primo gommone, stracarico, gli uomini stanno a
cavallo dei tubolari, a prua è mezzo sgonfio. Si cala l’unità veloce che per
prima cosa distribuisce giubbotti di salvataggio. Spesso la vista del soccorso
produce una pericolosa agitazione a bordo del gommone.
Il mare è quello piatto
di ieri. Firas a prua col megafono mantiene la calma spiegando le manovre
seguenti. Quando tutti hanno indossato il giubbotto, la Prudence si accosta e
aggancia il gommone alla sua fiancata. Da una scaletta di corda salgono a bordo
uno per volta, aiutati da braccia robuste. Alcuni non si reggono in piedi per
la posizione forzata tenuta sul gommone per molte ore. Salgono donne incinte e
due bambini. A ognuno viene dato subito uno zainetto con una tuta, barrette
caloriche, succhi di frutta, acqua, un asciugamano. La squadra medica fa a
ognuno una prima visita. Tre container sul ponte sono attrezzati a unità
ospedaliera, divisa in rianimazione, pronto soccorso, isolamento per casi
infettivi e una piccola sala parto. Se ne occupa Stefano Geniere Nigra, giovane
medico torinese.
A bordo
della Prudence non si usa il termine di profughi, migranti e titoli affini.
Sono chiamati ospiti. Ricevono la più urgente ospitalità, quella data a chi
arriva dal deserto. Mi affaccio sul gommone svuotato, il fondo è tenuto insieme
da un tavolato sconnesso. Ha portato centoventinove persone, con un motorino
fuoribordo di 40 cavalli. Dalle sei di mattina fino a sera si raggiungono altri
tre gommoni sparsi fuori delle 12 miglia, più un trasbordo da una nave soccorso
più piccola che era a limite di carico. A sera si trovano sistemati
seicentoquarantanove ospiti. La Prudence può contenerne mille, è la più grande
unità della zona. La sera si fa rotta su Reggio Calabria, destinazione
assegnata dal comando di Roma. Gli ospiti finalmente al sicuro, nutriti,
riscaldati, iniziano preghiere, canti e ballano insieme, popoli di terre
diverse e lontane tra loro. Sono a bordo, diretti in Italia. È la sola parte
del viaggio che non costa loro nulla. È il solo dono, l’unico passaggio gratis
venuto loro incontro. È anche il migliore trasporto. Qui sul mare è successo il
sottosopra dell’economia: il peggiore trasporto è costato loro carissimo, il
migliore invece niente.
Esultano per
liberazione. Ho con me il passaporto. Nessuno di loro ha un documento né un
bagaglio. Il loro esilio li ha privati del nome, l’identità è che sono vivi e
basta. I loro figli, i loro nipoti vorranno sapere, ritrovare le impossibili
piste attraversate, l’epica leggendaria che oggi è un trafiletto in cronaca, in
caso di strage. “Ennesimo” è l’aggettivo osceno che accompagna il titolo,
accanto al neutrale sostantivo di naufragio. Ennesimo: il cronista è stanco di
dover tenere il conto, alzare il sopracciglio per l’ennesima volta. Sulle rive
del lago Kinneret, chiamato Tiberiade dai conquistatori venuti da Roma, il
giovane fondatore del cristianesimo cercò i primi compagni. Erano di mestiere
pescatori. Al giovane piacevano le metafore. Secondo Matteo (4,19) disse :
“Venite con me, vi farò pescatori di uomini”. Eccomi in un tempo e su una nave
che applica alla lettera l’impulsiva metafora. Sto con persone che si sono
messe a pescare uomini, donne, bambini. Il Mediterraneo è un lago Kinneret
salato e più grande.
Chi sono
questi pescatori? Per coincidenza con la vicenda precedente, a bordo sono tredici,
ma senza un Iscariota in squadra. Quattro di personale medico, tre
organizzatori tecnici, tre interpreti e mediatori culturali, una psicologa, una
responsabile delle comunicazioni e in più il coordinatore. Ognuno ha esperienza
di interventi con Msf in varie aree del mondo. Hanno scelto la professione del
soccorso, ma per farla non è sufficiente la competenza. Serve una catapulta
interiore pronta al lancio dove si grida aiuto. Hanno passaporti di molte
nazioni, ma il loro titolo è: senza frontiere. Qui nelle acque internazionali
sono nel loro ambiente. Quando la loro presenza è indispensabile, non valgono i
confini. Perciò disturbano spesso la condotta dei governi coinvolti. Hanno
scelto di non prendere fondi dall’ Unione Europea. Perciò non piacciono alla
sua agenzia Frontex, che si occupa di frontiere nel Mediterraneo e non sopporta
l’impegno di organismi indipendenti, anche se salvano vite che senza di loro
andrebbero perdute.
Domenica
mattina di Pasqua la Prudence è in vista del porto di Reggio Calabria.
Troveremo sul molo in un giorno di festa solenne il dispositivo necessario alla
sbarco? Il dubbio si dilegua all’imbocco del porto: primi si vedono per numero
e colore di magliette azzurre i giovani volontari cattolici che cantano cori di
benvenuti. Poi il personale medico al completo, i funzionari di polizia del
servizio immigrazione, i molti autobus per il trasporto degli sbarcati nelle
varie destinazioni. A ognuno che scende lungo la passerella, i volontari danno
un opuscolo in varie lingue che informa su diritti e procedure, a conferma di
quanto già spiegato a bordo. Scendo e ricevo addirittura il saluto del sindaco
venuto al molo con alcuni assessori. Non riesco a credere: è domenica di
Pasqua, ma sono tutti pronti a funzionare con efficienza, cordialità, rispetto.
A Reggio Calabria, mi dicono, è prassi da due anni. Matthias Kennes mi conferma
che anche nel porto di Palermo hanno un simile spirito di servizio negli
sbarchi. Gli uomini e le donne scendono separatamente. Una di loro si volta
intorno smarrita. Una funzionaria di polizia fa chiedere a un’interprete cosa
stia cercando. Si tratta del marito. La funzionaria lo va a cercare, lo trova e
si assicura che la coppia viaggi insieme. Si può fare: tenere insieme procedure
e senso di umanità solidale. Grazie Reggio.
Il mattino
dopo si è di nuovo in mare dopo un rifornimento accelerato. Si va a velocità
sostenuta, c’è urgenza in zona. Sono partiti molti gommoni e sul posto la nave
Phoenix del Moas è già carica, con intorno nove gommoni, cioè mille persone
senza acqua nè giubbotti salvataggio. Sono tenuti insieme con qualche corda.
Abbiamo davanti almeno trenta ore di navigazione e mare grosso che ci rallenta.
Non potremo arrivare in tempo. Uno dei gommoni cede e nessuno può farci niente.
Questo può spiegare che i trafficanti lanciano gommoni al largo senza nessun
calcolo circa la presenza di soccorsi. La loro unica condizione è che il mare
sia calmo, non per motivi umanitari, ma perché centocinquanta persone spinte da
un motore di 40 cavalli non riescono a prendere il largo se il mare appena
increspa. A bordo della Prudence queste partenze vengono chiamate lanci, perché
scagliati da un lanciatore che rimane a riva.
L’intensità
dei lanci di aprile è dovuta alla nostra fornitura di motovedette nuove alla
Guardia Costiera libica, che entreranno in servizio a maggio. I trafficanti
nell’incertezza affrettano tutti i lanci consentiti dalle condizioni meteo. Il
capitano Pietro Catania e il suo equipaggio sono coinvolti anima e corpo in
queste operazioni, perché sono gente di mare. Non badano a turni né a orari,
fanno tutt’uno con la gioventù di Msf. In rotta da Reggio Calabria la nave
incontra maltempo. Veniamo a sapere che è rimasto un gommone, in attesa fuori
delle 12 miglia. Siamo i meno lontani ma comunque arriveremo troppo tardi.
Allora da Lampedusa, che sta parecchio più a sud di noi, la Guardia Costiera
manda due motovedette veloci, che arrivano molto prima e salvano
centoquarantatre persone caricandole a bordo. Ci corrono incontro e le
trasferiscono da noi. I due equipaggi sono partiti così in fretta da Lampedusa,
da non avere caricato neanche il cibo per loro. Sono digiuni, i marinai della
Prudence li riforniscono per il loro viaggio di ritorno.
Salgono
centoquarantatre persone intirizzite, una donna all’ottavo mese di gravidanza.
I loro occhi hanno perduto espressione di domanda, di preghiera, di messa a
fuoco. Stanno ancora fissando l’orizzonte vuoto. “Lo senti dall’odore, da
quanto tempo stanno in acqua” mi dice Cristian Paluccio, comandante in seconda.
Lo sento forte anch’io, è tannino, materia da conciatore di pelle, un sudore di
cuoio. Ricevuto lo zainetto di primo ristoro si mettono in fila per la doccia.
Si tolgono di dosso il fradicio di naufraghi. Dopo il getto di acqua dolce, per
loro anche più dolce, riprendono espressione i loro occhi. Cercano i volti,
cominciano a chiedere notizie, a capire chi li accoglie al sicuro. Affiorano i
canti, i ritmi e il contagioso ballo. Non ho uso di tatuaggi, la mia superficie
riporta solo i segni degli anni. Ma gli avvenimenti del mondo che mi hanno
coinvolto fisicamente, mi hanno inciso tatuaggi dalla parte interna della
pelle. Abito dentro la mia, posso percepirli e li distinguo. Ho disegni scritti
sul lato che non scolorisce.
Le due
settimane a bordo mi hanno impresso un tatuaggio nuovo: una scala di corda che
pesca nel vuoto. Dal suo ultimo gradino ho visto spuntare una per una le facce
di chi risaliva dal bordo di un abisso. Stipati in una zattera, scalavano i
gradini della loro salvezza. Quelle centinaia di facce: non ho la virtù di
poterle trattenere. Ho avuto l’assurdo privilegio di averle viste. Di loro mi
resta la scala di corda che hanno scalato seminudi e scalzi su pioli di legno.
Pratico alpinismo e credo di sapere di preciso cosa sia il verbo scalare.
Invece non lo sapevo. Ho imparato in mare a bordo di una nave quello che
nessuna cima raggiunta mi ha insegnato prima. Perciò sotto pelle si è impresso
il tatuaggio di una scala di corda coi pioli di legno.
Articolo pubblicato su il Fatto
quotidiano, 26 aprile 2017