mercoledì 29 novembre 2023

CONSEGNATE IN SENATO 70.000 FIRME

 

La legge per il salario minimo ha raccolto più di 70mila firme: ora l’Aula dovrà pronunciarsi

Gina si alza ogni mattina alle 5 per andare in ospedale. È addetta alle pulizie, assunta da una cooperativa vincitrice di appalto pubblico. Inquadrata col CCNL Multiservizi. Gli applausi dai balconi durante il Covid le ricordano l’ipocrisia di una politica solerte a definirla “eroina” e ancor più rapida a rigettarla nel dimenticatoio da cui era uscita quando la definivano “essenziale”. Una lavoratrice “essenziale” con una paga da 6,5€ lordi l’ora?

Bruno viene spostato ogni giorno di cantiere in cantiere. È addetto alla guardiania, assunto da una delle grandi aziende della vigilanza privata. Una di quelle con migliaia di addetti e vincitrice di tanti appalti pubblici. Il cedolino di Bruno parla chiaro: 5,85€ l’ora (CCNL Vigilanza e Servizi Fiduciari). E non è nemmeno quello messo peggio…

Sono due storie, diverse ma uguali

a quelle di più di 5 milioni di lavoratrici e lavoratori. Fotografia di un Paese sotto gli occhi di tutte e tutti, eppure troppo spesso lontano dai riflettori del potere politico e mediatico. Immagine di una Repubblica fondata sul lavoro povero e super-sfruttato. Soprattutto se sei donna e/o giovane.

Sono le gambe e le braccia delle tante Gina e dei tanti Bruno che sosterranno i cartoni con più di 70mila firme raccolte per permettere la consegna al Senato della Legge di Iniziativa Popolare per un salario minimo di 10€ l’ora.

In virtù del regolamento del Senato, le firme di 70mila uomini e donne del nostro Paese non potranno esser buttate in qualche cassetto e lì lasciate ad ammuffire. L’art.74, infatti, dispone che le Commissioni competenti siano obbligate a iniziare l’esame entro un mese dal deferimento e che lo stesso debba concludersi entro tre mesi dall’assegnazione.

I parlamentari saranno dunque tenuti a discutere di una proposta che non solo introdurrebbe aumenti salariali capaci di migliorare concretamente la vita di chi oggi guadagna cinque-sei-sette euro l’ora, ma anche un meccanismo di adeguamento automatico del salario minimo all’aumento del costo della vita. Succede oggi in Belgio e succedeva in Italia fino al 1992, quando la scala mobile fu abolita.

Perché se l’inflazione schizza alle stelle, non ci si può accontentare di un salario nominale più alto. Occorre che quei 10€ l’ora rendano effettivamente possibile comprare pane e olio, pagare le bollette e l’affitto, mettere la benzina nell’auto. E se questi aumentano, deve aumentare anche il salario minimo. In automatico. A meno che non si voglia camuffare con specchietti per le allodole l’impoverimento reale di lavoratori e lavoratrici.

Tra i tanti elementi che sono emersi in questi mesi di campagna per un salario minimo di 10€ l’ora, ce ne sono almeno quattro su cui vale la pena soffermarsi:

1. “Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”, cantava Gaber: i principi contano, ma devono tradursi in concretezza che determina l’azione. Le 70mila persone che hanno apposto la loro firma sulla legge l’hanno fatto non per un generico aumento dei salari, ma per una concretissima paga di 10€ l’ora;

2. In settimane in cui si discute di femminicidi e patriarcato, l’introduzione di un salario minimo di 10€ l’ora sarebbe inoltre una misura reale contro la violenza economica del nostro sistema. Donne e giovani sono i soggetti più colpiti dalle paghe da fame, con enormi conseguenze sul piano dell’autonomia e indipendenza individuale. Un salario di 10€ l’ora faciliterebbe l’uscita da una dimensione di violenza che non si manifesta solo in quella fisica, ma anche nella completa dipendenza economica da altri;

3. Si discute spesso, a sinistra, della necessità di ricostruire una “connessione sentimentale” col nostro popolo. Ma quale popolo? C’è chi continua a fantasticare dell’esistenza di un fantomatico “popolo della sinistra” che, però, semmai esistito è ormai scomparso o in via di estinzione. Un “nostro” popolo non va tanto rappresentato, quanto ri-articolato.

La campagna sul salario minimo è una campagna al servizio di un popolo di milioni di uomini e donne, che la “sentono” e a volte la fanno propria perché vivono quotidianamente sulla propria pelle o su quella dei loro cari la contraddizione tra capitale e lavoro, lo sfruttamento del secondo da parte del primo. Non a caso ai nostri banchetti ha firmato anche chi non ha fatto mistero di aver votato Fratelli d’Italia o Lega. La “questione salariale” è questione di classe e ripropone il terreno di contraddizioni materiali da troppo espunte da certi mondi.

4. Raccogliere 70mila firme è stato possibile solo grazie all’esistenza di reti organizzative territoriali di cui si tende a sottovalutare capacità e importanza. Si tratta di un patrimonio che, sebbene non sufficiente, ancora esiste e resiste nel nostro Paese. Può essere un perno utile intorno a cui potrebbe ruotare l’elemento chiave del destino di una politica collettiva e partecipata: la mobilitazione popolare. I rapporti di forza cristallizzati nei banchi parlamentari, infatti, non darebbero alcuna speranza a possibilità trasformative nell’interesse della maggioranza. Il quadro induce alla rassegnazione.

Ma la vita non è una fotografia. È movimento e dinamismo. E l’attore che può mutare gli equilibri è proprio la mobilitazione popolare unita all’organizzazione. Mobilitazione da costruire nel corpo e nel cuore della società, a partire dal mondo del lavoro (dentro e fuori i luoghi di lavoro).

Il Parlamento dovrà dunque pronunciarsi: deciderà di continuare a tollerare stipendi umilianti da 5 euro lordi l’ora? O, per una volta, darà ascolto alle richieste di chi produce la ricchezza – lavoratori e lavoratrici – che da troppo tempo invocano una retribuzione dignitosa?













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