La legge per il salario minimo
ha raccolto più di 70mila firme: ora l’Aula dovrà pronunciarsi
Gina si alza ogni mattina alle 5 per
andare in ospedale. È addetta alle pulizie, assunta da una cooperativa
vincitrice di appalto pubblico. Inquadrata col CCNL Multiservizi. Gli applausi
dai balconi durante il Covid le ricordano l’ipocrisia di una politica solerte a
definirla “eroina” e ancor più rapida a rigettarla nel dimenticatoio da
cui era uscita quando la definivano “essenziale”. Una lavoratrice “essenziale”
con una paga da 6,5€ lordi l’ora?
Bruno viene spostato ogni giorno di
cantiere in cantiere. È addetto alla guardiania, assunto da una delle
grandi aziende della vigilanza privata. Una di quelle con migliaia di addetti e
vincitrice di tanti appalti pubblici. Il cedolino di Bruno parla chiaro: 5,85€
l’ora (CCNL Vigilanza e Servizi Fiduciari). E non è nemmeno quello messo
peggio…
Sono due
storie, diverse ma uguali
a quelle di più di 5 milioni di lavoratrici e
lavoratori. Fotografia di un Paese sotto gli occhi di tutte e tutti, eppure
troppo spesso
lontano dai riflettori del potere politico e mediatico.
Immagine
di una Repubblica fondata sul lavoro povero e super-sfruttato.
Soprattutto
se sei donna e/o giovane.
Sono le
gambe e le braccia delle tante Gina e dei tanti Bruno che sosterranno i
cartoni con più di 70mila firme raccolte per permettere la consegna al
Senato della Legge di Iniziativa Popolare per un salario minimo di 10€ l’ora.
In virtù del
regolamento del Senato, le firme di 70mila uomini e donne del nostro Paese non
potranno esser buttate in qualche cassetto e lì lasciate ad ammuffire.
L’art.74, infatti, dispone che le Commissioni competenti siano obbligate
a iniziare l’esame entro un mese dal deferimento e che lo stesso debba
concludersi entro tre mesi dall’assegnazione.
I
parlamentari saranno dunque tenuti a discutere di una proposta che non solo
introdurrebbe aumenti salariali capaci di migliorare concretamente la vita
di chi oggi guadagna cinque-sei-sette euro l’ora, ma anche un meccanismo di adeguamento
automatico del salario minimo all’aumento del costo della vita. Succede
oggi in Belgio e succedeva in Italia fino al 1992, quando la scala mobile fu
abolita.
Perché se
l’inflazione schizza alle stelle, non ci si può accontentare di un salario
nominale più alto. Occorre che quei 10€ l’ora rendano effettivamente possibile
comprare pane e olio, pagare le bollette e l’affitto, mettere la benzina
nell’auto. E se questi aumentano, deve aumentare anche il salario minimo. In
automatico. A meno che non si voglia camuffare con specchietti per le
allodole l’impoverimento reale di lavoratori e lavoratrici.
Tra i tanti elementi che sono emersi in
questi mesi di campagna per un salario minimo di 10€ l’ora, ce ne sono almeno
quattro su cui vale la pena soffermarsi:
1. “Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia
rivoluzione”, cantava Gaber: i principi contano, ma devono tradursi in
concretezza che determina l’azione. Le 70mila persone che hanno apposto la loro
firma sulla legge l’hanno fatto non per un generico aumento dei salari, ma per
una concretissima paga di 10€ l’ora;
2. In settimane in cui si discute di femminicidi e
patriarcato, l’introduzione di un salario minimo di 10€ l’ora sarebbe inoltre
una misura reale contro la violenza economica del nostro
sistema. Donne e giovani sono i soggetti più colpiti dalle paghe da fame, con
enormi conseguenze sul piano dell’autonomia e indipendenza individuale. Un
salario di 10€ l’ora faciliterebbe l’uscita da una dimensione di violenza che
non si manifesta solo in quella fisica, ma anche nella completa dipendenza
economica da altri;
3. Si discute spesso, a sinistra,
della necessità di ricostruire una “connessione sentimentale” col nostro
popolo. Ma quale popolo? C’è chi continua a fantasticare dell’esistenza di un
fantomatico “popolo della sinistra” che, però, semmai esistito è ormai scomparso
o in via di estinzione. Un “nostro” popolo non va tanto rappresentato, quanto
ri-articolato.
La campagna
sul salario minimo è una campagna al servizio di un popolo di milioni di uomini
e donne, che la “sentono” e a volte la fanno propria perché vivono
quotidianamente sulla propria pelle o su quella dei loro cari la contraddizione
tra capitale e lavoro, lo sfruttamento del secondo da parte del primo.
Non a caso ai nostri banchetti ha firmato anche chi non ha fatto mistero di
aver votato Fratelli d’Italia o Lega. La “questione salariale” è questione
di classe e ripropone il terreno di contraddizioni materiali da troppo
espunte da certi mondi.
4. Raccogliere 70mila firme è stato
possibile solo grazie all’esistenza di reti organizzative territoriali di cui
si tende a sottovalutare capacità e importanza. Si tratta di un patrimonio che,
sebbene non sufficiente, ancora esiste e resiste nel nostro Paese. Può
essere un perno utile intorno a cui potrebbe ruotare l’elemento chiave del
destino di una politica collettiva e partecipata: la mobilitazione popolare. I
rapporti di forza cristallizzati nei banchi parlamentari, infatti, non
darebbero alcuna speranza a possibilità trasformative nell’interesse della
maggioranza. Il quadro induce alla rassegnazione.
Ma la vita non è una fotografia. È movimento
e dinamismo. E l’attore che può mutare gli equilibri è proprio
la mobilitazione popolare unita all’organizzazione. Mobilitazione da costruire
nel corpo e nel cuore della società, a partire dal mondo del lavoro (dentro e
fuori i luoghi di lavoro).
Il Parlamento dovrà dunque pronunciarsi: deciderà di continuare a tollerare stipendi
umilianti da 5 euro lordi l’ora? O, per una volta, darà ascolto alle richieste
di chi produce la ricchezza – lavoratori e lavoratrici – che da troppo tempo
invocano una retribuzione dignitosa?