Clima, la speranza di un accordo
25 ambulanze. Riservate a chi dovesse “avere problemi con la sicurezza” nei giorni del 16esimo Vertice delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici, che da ieri e fino al 10 dicembre prossimo occuperà chilometri di spiagge transennate a Cancun, capitale messicana del turismo balneare. Poi 6mila poliziotti e soldati, un altro migliaio di marines. Solo questi bellicosi numeri ci richiamano alla memoria le concitate giornate della COP15 di Copenhagen, dove nel dicembre 2009 i leaders di mezzo pianeta hanno fatto a gara per affacciarsi alla vetrina Onu, immaginando che il mondo sarebbe riuscito a darsi una verniciatina più credibile di verde mettendo in campo fondi e iniziative certi per affrontare l’emergenza. Memori del fallimento, ad aprire la Conferenza 2010 i politici lasciano la la scienza: Mario Molina, presidente del Centre for Strategic Studies on Energy and Environment e Rajendra Kumar Pachauri, presidente del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici che per primo ha dimostrato che sono state le attività umane ad incendiare l’atmosfera. I dati sono sotto gli occhi (e gli ombrelli) di tutti noi: il 2009 secondo la NASA è stato l’anno più caldo dopo il 1880, data in cui si fa cominciare l’industrializzazione dell’Occidente e le emissioni climalteranti. “Dobbiamo trovare mezzi e strumenti per risolvere l’emergenza – ha denunciato Molina – e non ci sono giustificazioni che tengono visto che il costo che dovremmo affrontare per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto della soglia rischio dei 2 gradi va tra l’1 e il 3% del Pil globale, a fronte dei costi astronomici che dovremmo sostenere se non lo facessimo in tempo utile”. La finestra delle opportunità, poi, potrebbe chiudersi, e per questo non bastano le politiche di adattamento: “senza uno stop ai cambiamenti climatici, il rischio è grande – ha continuato Kumar Pachauri – perché gli impatti più gravi li subiranno proprio quei popoli che meno hanno contribuito all’inquinamento globale, i più poveri e privi di mezzi per reagire”.
L’emergenza clima, ha ammonito il padrone di casa, il presidente messicano Felipe Calderon, “non conosce confini né colori. Quando negoziamo – ha ricordato ai suoi colleghi dei Governi – dobbiamo ricordarci che lo facciamo non solo per i nostri Paesi, ma per quei bambini e quelle bambine cui è nostra responsabilità di dare un futuro”. Noncuranti gli Stati Uniti - i principali inquinatori ''storici'' - e la Cina il principale inquinatore “attuale”'' - guidano allo scontro i due blocchi contrapposti dei Paesi industrializzati e degli emergenti cercando di strappare gli uni gli altri i maggiori tagli di emissioni e i maggiori finanziamenti. Cristina Figueres, segretaria generale dell’UNFCCC, la Convenzione delle Nazioni Unite che fa da cornice ai negoziati, ha invocato su tutti l’ispirazione della dea maya Ixchel, nume della ragione e della creatività, perché “metterle insieme è necessario per tessere il tappeto che ci guida a una nuova fase di implementazione del Protocollo di Kyoto”. L’unico documento con impegni vincolanti di tagli delle emissioni, infatti, “scade” nel 2012 e moltissimi tra i Paesi emergenti e industrializzati vorrebbero mandarlo in pensione senza assumersi nuovi impegni.La faccia, se non ce la mettono i Governi, ce la mette Simona Lopez, leader della comunità Tzeltal del Chiapas. Il Presidente Gonzales, anche per recuperare terreno rispetto al collega boliviano Morales sulla causa indigena, sta spingendo perché nella “visione condivisa” che apre il documento-guida del negoziato, siano riconosciuti i diritti delle popolazioni indigeni come custodi e registi della protezione del territorio, in particolare delle foreste. Racconta una storia semplice, Simona Lopez: quella di donne che vive facendo e vendendo vasi di coccio. Per cuocere i vasi e fare da mangiare, generazione dopo generazione, hanno contribuito alla deforestazione. Certo, la responsabilità più grande non è la loro: è delle multinazionali del legname, delle piantagioni, del clima che cambia. Il risultato è che oggi per trovare la legna per pranzo e cena gli ci vogliono oltre 5 ore di lavoro. Ma da qualche anno Simona e le altre hanno imparato come cuocere vasi e cibo proteggendo la foresta, la loro più grande risorsa. E’ bastato un piccolissimo finanziamento e un po’ di formazione. “. Potreste dire che abbiamo fatto una piccola cosa– dice con semplicità ai negoziatori – come abbiamo fatto noi, ma è concreta, è un vero cambiamento per la nostra comunità. Adesso tocca a voi, fate la vostra parte, fate qualcosa per il pianeta”. Che la dea Ixchel sia rimasta l’unica speranza?Aggiornamenti in diretta da Cancun all’indirizzo www.faircoop.net/campagne
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