Italia capolista mondiale del precariato, ai referendum 5 sì per cancellare anni di bugie, parla Emiliano Brancaccio
Intervista di Umberto De Giovannangeli -
“Il nostro Paese ha ridotto le tutele più di tutti. ‘Dobbiamo creare più occupazione’, era il mantra neoliberista. Che però è stato smentito persino dal Fmi. I quesiti sono una chance per ridiscutere il sistema”.
In vista dei referendum su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno, la maggioranza di governo invita a disertare le urne. Per Meloni e i suoi alleati, infatti, il successo dei referendum pregiudicherebbe il boom dell’occupazione ottenuto in questi anni. Ma è proprio così? Ne parliamo con l’economista Emiliano Brancaccio dell’Università Federico II di Napoli, che sui legami tra precarietà e occupazione ha pubblicato ricerche d’avanguardia e ha tenuto importanti dibattiti presso la Scuola Superiore della Magistratura, con Tiziano Treu e altri fautori della flessibilità.
Professor Brancaccio, lei ha sostenuto che la deregulation del lavoro
è stato “lo spirito del tempo” che ha dominato l’ultimo trentennio. Può
spiegarci?
Nei Paesi Ocse, dal 1990 abbiamo assistito a un crollo medio degli
indici di protezione dei lavoratori di circa il 20 per cento e a una
riduzione della loro variabilità internazionale di quasi il 60 per
cento. In sostanza, c’è stata convergenza internazionale al ribasso,
nella direzione del precariato. In questa tendenza generale, l’Italia ha
precarizzato più della media. Nel nostro paese, le politiche di
flessibilità del lavoro hanno abbattuto le tutele di oltre il 35% per i
contratti temporanei e oltre il 20% per i contratti a tempo
indeterminato. Siamo stati ai vertici della corsa mondiale a
precarizzare.
Il governo sostiene che se al referendum vincono i Sì, ci sarà un aumento della disoccupazione. È così?
È un vecchio slogan totalmente smentito dall’evidenza scientifica. L’88%
delle ricerche pubblicate nell’ultimo decennio su riviste accademiche
internazionali, mostra che la precarizzazione non stimola affatto le
assunzioni e che le tutele non aumentano i disoccupati. Questo risultato
è sempre valido, quali che siano le citazioni degli articoli, gli
impact factors delle riviste scientifiche esaminate o le tecniche di
indagine utilizzate.
Un risultato sorprendente…
Non più di tanto. Già la Banca mondiale nel 2013 riconosceva che
“l’impatto della flessibilità del lavoro è insignificante o modesto”.
Anche il Fondo monetario internazionale, nel 2016, è giunto alla
conclusione che le deregolamentazioni del lavoro “non hanno effetti
statisticamente significativi sull’occupazione”. E l’Ocse, nello stesso
anno, ha ammesso che “la maggior parte degli studi empirici che
analizzano gli effetti delle riforme per la flessibilità, suggeriscono
che queste hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di
occupazione”. Insomma, le stesse istituzioni che per anni hanno
propugnato la deregulation, oggi ammettono che questa politica non crea
posti di lavoro.
Se la flessibilità non stimola l’occupazione, quali sono i suoi effetti?
L’evidenza scientifica mostra che i contratti flessibili rendono i
lavoratori più “docili”, e quindi provocano un calo della quota salari e
più in generale un aumento delle disuguaglianze. Anche questo risultato
trova conferme in studi pubblicati dalle principali istituzioni, tra
cui il National bureau of economic research. Anche da questo punto di
vista l’Italia è caso emblematico: da noi la precarizzazione ha
contribuito fortemente ad abbattere i salari.
C’è poi il quesito contro gli appalti selvaggi, che mira a contrastare la tragedia delle morti sul lavoro. Che ne pensa?
In Italia, più che altrove, la tendenza storica al declino dei morti sul
lavoro si è arrestata. E si intravede una pericolosa inversione della
curva. Gli appalti senza regole sono sicuramente parte del problema.
C’è chi dice che la vittoria dei Sì comporterebbe un insostenibile
aumento dei costi. Licenziamenti più gravosi e appalti più difficili
metterebbero in crisi molte imprese che già faticano a restare sul
mercato.
L’idea secondo cui bisogna aiutare in tutti i modi le imprese che non
riescono a restare sul mercato è la ragione per cui, nel nostro paese,
ancora prosperano enormi sacche di capitalismo inefficiente. Se abitui
l’imprenditore a vivacchiare di prebende statali, bassi salari, evasione
fiscale e assenza di controlli sulla sicurezza, togli qualsiasi stimolo
all’innovazione produttiva. Al contrario, aumentare i costi per il
lavoro e la sicurezza è una “frusta competitiva” che forza le imprese a
migliorarsi.
Altri avanzano contestazioni politiche: i referendum sono appoggiati
anche dal Pd, che è lo stesso partito che in passato ha portato avanti
le politiche di precarizzazione…
Questa obiezione mi sembra autolesionista. Da Treu a Renzi, ho sempre
messo in evidenza le falsificazioni ideologiche dei propugnatori della
precarietà che venivano dal Pd. Ma se capita l’occasione di intervenire
sul quadro legislativo, direttamente e nella direzione giusta, penso che
si debba cercare di coglierla.
Anche perché il quorum è a rischio…
È a rischio non per beghe infantili tra fautori dei “piccoli passi” e
apologeti del “tanto peggio, tanto meglio”. La verità è che manca la
capacità di sviluppare tra masse totalmente depoliticizzate una critica
del capitalismo all’altezza di questi tempi tremendi. Molti parlano di
carenze organizzative che impedirebbero di creare il movimento. In
realtà, opportunamente aggiornato, oggi vale più che mai il vecchio
detto: senza moderna teoria “rivoluzionaria” non c’è movimento
“rivoluzionario”.